lunedì 17 marzo 2014

LE BELLE PAROLE NON BASTANO, SCRIVE PANEBIANCO. PERO' PER UN PO' Sì, AGGIUNGIAMO NOI.

 
E' successo con altri, doveva capitare anche con il bravissimo Professor Panebianco. Non essere d'accordo, o almeno, prevalentemente. Nulla di male, anzi. In precedenza  era accaduto con altri opinionisti apprezzatissimi dal Camerlengo : Giacalone, Galli della Loggia, Polito, Ostellino, Battista...Non era capitato finora con Panebianco e Ricolfi. Oggi, quest'ultimo è l'unico rimasto "vergine", ma prima o poi, come è naturale che sia, capiterà anche con lui.
Veniamo all'oggetto del contendere, contenuto nell'editoriale odierno del Corriere della Sera. nel quale il Prof. Panebianco elogia l'esporsi di Renzi con i tempi di realizzazione delle molte promesse che fa, il che lo sottopone ad un più ravvicinato e serrato vaglio da parte dei cittadini. Questa cosa la condivido, quella che invece non approvo è l'affermazione che noi italiani si sia diventati prudenti se non scettici nei confronti degli "annunci".  Che le "belle parole" da sole non bastino più. No, questo non lo credo, specie poi se il "miele" viene profuso da comunicatori capaci com'è sicuramente Matteo Renzi. Io stesso, che pure non mi sento facile preda del pifferaio magico di turno, mi scopro ad approvare compiaciuto il neo Premier che dice cose tipo "l'Italia, se fa l'Italia, non deve farsi dettare i compiti da nessuno". Non so nemmeno se è vero o no, mi piace pensarlo e mi piace che il mio presidente del Consiglio lo dica in Europa.  La vulgata vuole che Monti, durante un vertice europeo, durante il momento peggiore della crisi "sequestrò" i colleghi premier finché non si fossero determinati in modo per noi favorevole non ricordo bene su quale questione (probabilmente un sostegno sui mercati volto a ottenere una riduzione del famigerato spread). Insomma, anche lui si batté per il proprio Paese, non limitandosi a subire l'agenda dell'asse Berlino - Bruxelles. I risultati furono assai modesti, anche se oggi leggo, senza essere d'accordo, che se Draghi poté dire agli inizi estate 2012 "verrà fatto tutto ciò che sarà necessario per difendere l'euro", il celeberrimo "whatever it takes", fu anche per il miglioramento dei conti ottenuto da Monti tramite un salasso di tasse, IMU per prima. Non lo credo perché l'Euro era (è ? ) malato di SUO, per i suoi difetti congeniti, moneta unica di un consesso ampio di paesi non federati, che avanzano - o arretrano...- in modo sparso e scordinato.   Quando Draghi intervenne, lo fece proprio perché , è la mia idea - ma certo non solitaria - tutte le varie ricette si erano rivelate inadeguate (anche in Spagna lo spread restava a livelli intollerabili) e l'Italia, dopo 8 mesi di Montismo, era tornata allo stesso baratro di oltre 500 punti che aveva nel novembre 2011, quando Berlusconi fu costretto a dimettersi. 
Bene, anche allora, e nonostante l'evidenza dei risultati che NON arrivavano, molti italiani credettero in Monti. Io ricordo alcuni amici che per MESI elogiarono quello che anche allora era il salvatore della patria, loro come tanti. Bene, oggi non lo dice quasi più nessuno, e Scelta Civica, la creatura politica dell'ex premier, è dissolta, che se si votasse oggi, la soglia elettorale nemmeno al 2% sarebbe sufficientemente bassa !
Magari noi italiani siamo affetti da due mali opposti : creduloni prima, ingrati poi...
Anche oggi Renzi è creduto dalla gente, lo scetticismo è della classe politica - specie della sinistra radicale e nostalgica, che lo vede come un MALE forse peggiore di Berlusconi - , delle categorie che si sentono minacciate dal suo dire basta alla concertazione tanto esaltata dal presidente Ciampi, di quelli che temono che il favore popolare dia al leader una forza poi più difficilmente ostacolabile coi soliti sistemi di palazzo.
Ma il consenso popolare, quello ce l'ha, e trasversale, come ha sempre detto e voluto lui. 
Ovviamente, Renzi, nel caso gli annunci restassero tali, e la mancia elettorale di 10 miliardi ai suoi elettori, i lavoratori dipendenti, non fosse "Un segnale d'inizio", come lui promette, ma appunto un coupe de theatre a favore della prossima consultazione, non seguito da altre iniziative valide, il consenso s'inizierà ad erodere, che dalla sua Renzino non avrà denaro e tv per cercare di mantenere viva la fiducia nell'attesa.
Però per un po', e forse un bel po', le belle parole basteranno, ancora una volta.


Non si vive di belle parole 



L’affermazione del presidente del Consiglio secondo cui se a maggio non ci saranno i soldi in più promessi nelle buste paga per effetto della manovra Irpef, allora egli sarà da considerare un buffone, è sembrata a molti la conferma di quanto azzardato sia il suo gioco politico. Ma è forse possibile una diversa interpretazione: quella frase irrituale svela quale sia il vero punto di forza di Renzi. Egli ha intercettato e correttamente interpretato un grande cambiamento (positivo) che si è verificato negli atteggiamenti dell’opinione pubblica. Il fatto è che ormai non è più possibile abbindolare nessuno: nessuno si fida più, non solo degli annunci, ma nemmeno — finalmente! — delle decisioni formalmente e ufficialmente prese da governi e Parlamenti. «Pagare moneta, vedere cammello» è ora l’atteggiamento dominante nell’opinione pubblica.
Fino a poco tempo fa il sistema funzionava così: veniva annunciato un nuovo, meraviglioso, provvedimento. I media, per lo più, lo presentavano come cosa già fatta. Dopo qualche tempo arrivava, se arrivava, la decisione, con i crismi del decreto legge o magari (ma doveva passare molto più tempo) con quelli della legge votata dal Parlamento in pompa magna. Già lì c’era la prima doccia fredda: gli addetti ai lavori scoprivano che fra il provvedimento annunciato e quello varato c’era un grande scarto. Ma questa informazione arrivava attutita all’opinione pubblica. E la cosa non finiva lì. Dopo, scattava il complicatissimo iter burocratico dell’attuazione durante il quale il provvedimento veniva ulteriormente triturato e, spesso, pervertito. Gli scopi iniziali venivano sovente abbandonati e sostituiti tacitamente da altri. Alla fine della fiera, e dopo parecchi mesi, i soliti addetti ai lavori scoprivano che il provvedimento non aveva sortito alcun effetto oppure solo effetti negativi: niente che assomigliasse, neppure alla lontana, alle meravigliose novità a suo tempo annunciate. L’opinione pubblica, ormai distratta da altro, neppure veniva a saperlo.
Adesso, anche i sassi sanno che non bisogna fidarsi: che non bisogna guardare solo alle decisioni che vengono prese ma aspettare di vedere quale ne sarà la attuazione, ciò che conta davvero.
Perché questo cambiamento dell’atteggiamento dell’opinione pubblica è positivo? Perché apre la possibilità di imporre anche in Italia ciò che gli anglosassoni chiamano accountability : sei responsabile di ciò che mi prometti e ti giudicherò non per le promesse ma per i fatti che seguiranno, o non seguiranno, alle promesse. E ciò, oltre alla politica, potrebbe finalmente mettere sotto scopa anche «l’infrastruttura amministrativa» (burocrazia e giustizia amministrativa), il cui malfunzionamento è il male più grave da cui è afflitto il Paese. Accountability significa che l’epoca delle furbizie volge forse al tramonto.
Certo, gli umori del Paese potrebbero cambiare di nuovo. L’opinione pubblica potrebbe tornare ad essere ciò che è sempre stata: un impasto di apatia, credulità e voglia di ribellione, unite a ignoranza e disinteresse per i veri meccanismi che condizionano le scelte pubbliche. Ma è già tanto che la «politica degli annunci» non incanti più nessuno e che, inoltre, si sia diffusa la consapevolezza che ciò che blocca il Paese sta nell’intreccio fra una politica impotente e una infrastruttura amministrativa che opera al servizio di se stessa

È questo il vero punto di forza di Renzi. È la più potente arma di ricatto di cui dispone per mettere in riga le lobby parlamentari e la burocrazia a tutti i livelli: tutti quelli che, se si profila all’orizzonte una innovazione, si mettono subito al lavoro per neutralizzarla, distorcerla, edulcorarla. E che fino ad oggi, sfruttando cavilli e procedure complicate, sono sempre, o quasi sempre, riusciti a spuntarla. Basti vedere che cosa è successo a tanti provvedimenti varati dai governi Monti e Letta.
Sbloccherà davvero Renzi il pagamento dei debiti alle imprese? Il provvedimento sui contratti a termine, quando verrà varato, partirà già annacquato grazie al lavoro sottotraccia delle lobby contrarie oppure verrà neutralizzato in sede di attuazione? La riforma del lavoro di Renzi farà la fine di quella della Fornero? Il taglio dell’Irpef risulterà solo un regalo elettorale (in vista delle Europee di maggio) incapace di stimolare la ripresa della domanda interna oppure, sommandosi ad altri provvedimenti pro-crescita, contribuirà a mutare il clima del Paese, a dare il colpo di frusta di cui l’economia italiana ha bisogno? Cosa verrà fatto, a breve, contro quella palla al piede dell’economia che è il malfunzionamento della giustizia civile? Cosa verrà fatto per rendere i ricorsi ai Tar l’eccezione anziché la regola? A seconda delle risposte che potremo dare fra qualche mese a queste e ad altre domande, capiremo — lo capiremo solo allora — se Renzi si rivelerà un autentico vincente oppure un’altra (l’ennesima) promessa mancata.
I vincoli che il premier deve aggirare o allentare sono potenti. Egli ha in mano due sole carte: il rapporto carismatico che ha stabilito con l’opinione pubblica e la paura dei parlamentari che un suo fallimento li porti dritti alle elezioni. Ma sono carte a rischio di deterioramento rapido. Il carisma, per sua natura, è fragile, transitorio, effimero. Renzi ha ragione nel voler fare tutto o quasi tutto in fretta, nel tempo più breve possibile. Deve cambiare le regole del gioco, ivi comprese quelle istituzionali e amministrative, prima che il suo carisma subisca l’inevitabile logoramento.
Altrimenti, tutto finirà con il solito «vorrei ma non posso», la vera epigrafe di altre avventure carismatiche che l’Italia repubblicana ha conosciuto. 

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