Combattere il MALE è più facile che realizzare il bene. Gli Stati Uniti, e l'Occidente in genere, lo hanno scoperto da un po' e non si sa bene che strada prendere al bivio tra Morale e Prudenza, come suggestivamente lo descrive nel suo intervento Joseph S. Neye Jr. , un professore di Harvard, esperto di Leadership, ospite su La Stampa di oggi.
Quanti sono quelli che si sentono di negare che lo sceriffo Omar in Afghanistan, o Saddam in Iraq, o Gheddafi in Libia, fossero il MALE ? Pochi credo. Averli abbattuti ha portato il BENE ? Domanda difficile. Sicuramente in quelle regioni NON ha portato la PACE.
Già in Jugoslavia, ma anche qui non mancano le voci di dissenso (le cui ragioni però non è che le abbia capite bene ) , andò meglio, che almeno l'intervento Nato pose fine al massacro di Sarajevo, impedendo altre vergogne simil Srebrenica. Peraltro, il successivo intervento della Nato in Kosovo, senza l'avallo ONU, è usato oggi dai Russi come precedente a giustificazione del loro intervento in Crimea.
Ci sono poi i tanti casi di genocidi in Africa (Ruanda l'esempio tragico) dove il mondo si è girato dall'altra parte.
La crisi Siriana, con i suoi oltre 130.000 morti, con vittime prevalenti tra i civili, donne e bambini, milioni di profughi, ripropone il dilemma sul che fare.
Ma l'articolo propone considerazioni, giuste riflessioni, NON risposte.
Che forse non ci sono. Quantomeno non facili, né sicure.
Obama e la Siria, la morale fa i conti con la prudenza
Nella Guerra civile in Siria si stima siano morte oltre 130
mila persone. I rapporti delle Nazioni Unite parlano di atrocità, le
immagini su Internet di attacchi contro i civili e i racconti delle
sofferenze dei rifugiati straziano i nostri cuori. Ma cosa dev’essere
fatto - e da chi?
Recentemente lo studioso e politico canadese Michael Ignatieff ha esortato il presidente degli Stati Uniti Barack Obama a imporre una no-fly zone sulla Siria, nonostante la quasi certezza che la Russia porrebbe il veto alla risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, necessario per rendere legale una tale mossa. Secondo Ignatieff, se si permette al presidente siriano Bashar al-Assad di prevalere, le sue forze annienteranno quello che resta dei ribelli sunniti - almeno per ora; nel clima di odio creatosi il sangue alla fine tonerà a scorrere.
In un articolo l’editorialista Thomas Friedman ha tratto alcuni insegnamenti dalla «recente esperienza» degli Stati Uniti in Medio Oriente. In primo luogo, gli americani capiscono poco della complessità sociale e politica di quei Paesi. In secondo luogo gli Stati Uniti possono fermare (a un costo considerevole) gli eventi negativi, ma non possono far sì che le cose da sole cambino in meglio. E, terzo, quando l’America cerca di far andare le cose per il verso giusto in questi Paesi corre il rischio di assumersi la responsabilità della soluzione dei loro problemi .
Ma quindi quali sono i compiti di un leader oltreconfine? Il problema va ben oltre la Siria, si vedano le recenti uccisioni nel Sud Sudan, nella Repubblica Centrafricana, in Somalia e altrove. Nel 2005 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha riconosciuto all’unanimità la «responsabilità di proteggere» i cittadini quando il loro governo non riesce a farlo, pronunciamento che nel 2011 è stato richiamato nella risoluzione 1973 del Consiglio di sicurezza dell’Onu che autorizzava l’uso della forza militare in Libia.
Russia, Cina e altri ritengono che in Libia il principio sia stato abusato e che la dottrina guida del diritto internazionale resti la Carta delle Nazioni Unite, che vieta l’uso della forza se non per legittima difesa o se autorizzata dal Consiglio di Sicurezza. Ma nel 1999, di fronte al veto russo per una possibile risoluzione del Consiglio di Sicurezza nel caso del Kosovo, la Nato agì lo stesso e molti difensori hanno sostenuto che, legalità a parte, la decisione era moralmente giustificata.
Quindi quali argomenti dovrebbero usare i leader politici quando si sta cercando di decidere quale politica seguire? La risposta dipende, in parte, dalla collettività verso cui lui, o lei, si sente moralmente in obbligo.
Sopra il livello del piccolo gruppo, l’identità umana è plasmata da ciò che Benedict Anderson chiama «comunità immaginate». Poche persone hanno esperienza diretta degli altri membri della comunità con cui s’identificano. Negli ultimi secoli la nazione è stata la comunità immaginata per cui la maggior parte delle persone è disposta a fare sacrifici, e persino a morire, e la maggior parte dei dirigenti ritengono che i loro principali obblighi siano di portata nazionale.
In un mondo globalizzato, tuttavia, molte persone appartengono a più comunità immaginate. Alcune – locale, regionale, nazionale, cosmopolita - sembrano essere organizzate come cerchi concentrici, dove la forza dell’identità diminuisce allontanandosi dal nucleo, ma, in un’epoca d’informazione globale questa classificazione è diventata confusa.
Oggi molte identità sono cerchi che si sovrappongono - affinità sostenute da Internet e dai viaggi a basso costo. Le diaspore ormai sono a un clic di distanza. I gruppi professionali aderiscono a standard transnazionali. I gruppi di attivisti, dagli ambientalisti ai terroristi, si collegano anche a livello transfrontaliero.
Il risultato è che la sovranità non è più così assoluta e impenetrabile come pareva un tempo. Questa è la realtà che l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha riconosciuto quando ha sancito la responsabilità di proteggere le persone in pericolo negli Stati sovrani.
Ma quale obbligo morale fa presa su un leader come Obama? La teorica della leadership Barbara Kellerman ha denunciato il fallimento morale dell’isolazionismo dell’ex presidente americano Bill Clinton per l’inadeguatezza della sua risposta al genocidio in Ruanda nel 1994. In un certo senso ha ragione. Ma c’erano anche altri leader isolazionisti e nessun Paese ha risposto in modo adeguato.
Se Clinton avesse tentato di inviare truppe americane avrebbe incontrato una dura resistenza nel Congresso degli Stati Uniti. A così poca distanza dalla morte di soldati americani durante l’intervento umanitario in Somalia nel 1993, la pubblica opinione americana non era pronta per un’altra missione militare all’estero.
Così che cosa dovrebbe fare in tali circostanze un leader democraticamente eletto? Clinton ha ammesso che avrebbe potuto fare di più per sollecitare l’Onu e gli altri Paesi a salvare vite umane in Ruanda. Ma i buoni leader oggi sono spesso presi in mezzo tra le loro personali inclinazioni cosmopolite e i loro tradizionali obblighi nei confronti dei cittadini che li hanno eletti.
Fortunatamente l’isolazionismo non è un dettato morale da «tutto o niente». In un mondo in cui le persone si organizzano in comunità nazionali, un ideale puramente cosmopolita non è realistico. La perequazione del reddito globale, ad esempio, non è un obbligo credibile per un leader politico nazionale, ma questo leader potrebbe raccogliere seguaci dicendo che si dovrebbe fare di più per ridurre la povertà e le malattie in tutto il mondo.
Come ha detto il filosofo Kwame Anthony Appiah: «”Non uccidere” è da prendere alla lettera. “Onora il padre e la madre” ammette gradazioni».
Lo stesso vale per cosmopolitismo contro isolazionismo. Possiamo ammirare i capi che fanno sforzi per aumentare nei loro seguaci il senso dei doveri morali oltre i confini nazionali, ma serve a poco pretendere dai leader uno standard impossibile che finirebbe per minare la loro capacità di rimanere leader.
Obama, alle prese con la necessità di misurare le sue responsabilità in Siria e altrove, si trova di fronte a un grave dilemma morale. Come dice Appiah gli obblighi al di là dei confini nazionali sono una questione di sfumature, e ci sono anche gradi di intervento, che vanno dagli aiuti ai rifugiati fino alle armi e diversi livelli di uso della forza.
Ma anche optando per queste scelte graduali, un leader deve ai suoi seguaci la prudenza - deve ricordare il giuramento di Ippocrate: primo, non nuocere. Ignatieff dice che Obama si trova già alle prese con le conseguenze della sua inazione; Friedman gli ricorda la virtù della prudenza. Povero Obama.
(*) Professore ad Harvard e autore di Presidential Leadership and the Creation of the American Era.
Copyright: Project Syndicate, 2014
www.project-syndicate.org
Traduzione di Carla Reschia
Recentemente lo studioso e politico canadese Michael Ignatieff ha esortato il presidente degli Stati Uniti Barack Obama a imporre una no-fly zone sulla Siria, nonostante la quasi certezza che la Russia porrebbe il veto alla risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, necessario per rendere legale una tale mossa. Secondo Ignatieff, se si permette al presidente siriano Bashar al-Assad di prevalere, le sue forze annienteranno quello che resta dei ribelli sunniti - almeno per ora; nel clima di odio creatosi il sangue alla fine tonerà a scorrere.
In un articolo l’editorialista Thomas Friedman ha tratto alcuni insegnamenti dalla «recente esperienza» degli Stati Uniti in Medio Oriente. In primo luogo, gli americani capiscono poco della complessità sociale e politica di quei Paesi. In secondo luogo gli Stati Uniti possono fermare (a un costo considerevole) gli eventi negativi, ma non possono far sì che le cose da sole cambino in meglio. E, terzo, quando l’America cerca di far andare le cose per il verso giusto in questi Paesi corre il rischio di assumersi la responsabilità della soluzione dei loro problemi .
Ma quindi quali sono i compiti di un leader oltreconfine? Il problema va ben oltre la Siria, si vedano le recenti uccisioni nel Sud Sudan, nella Repubblica Centrafricana, in Somalia e altrove. Nel 2005 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha riconosciuto all’unanimità la «responsabilità di proteggere» i cittadini quando il loro governo non riesce a farlo, pronunciamento che nel 2011 è stato richiamato nella risoluzione 1973 del Consiglio di sicurezza dell’Onu che autorizzava l’uso della forza militare in Libia.
Russia, Cina e altri ritengono che in Libia il principio sia stato abusato e che la dottrina guida del diritto internazionale resti la Carta delle Nazioni Unite, che vieta l’uso della forza se non per legittima difesa o se autorizzata dal Consiglio di Sicurezza. Ma nel 1999, di fronte al veto russo per una possibile risoluzione del Consiglio di Sicurezza nel caso del Kosovo, la Nato agì lo stesso e molti difensori hanno sostenuto che, legalità a parte, la decisione era moralmente giustificata.
Quindi quali argomenti dovrebbero usare i leader politici quando si sta cercando di decidere quale politica seguire? La risposta dipende, in parte, dalla collettività verso cui lui, o lei, si sente moralmente in obbligo.
Sopra il livello del piccolo gruppo, l’identità umana è plasmata da ciò che Benedict Anderson chiama «comunità immaginate». Poche persone hanno esperienza diretta degli altri membri della comunità con cui s’identificano. Negli ultimi secoli la nazione è stata la comunità immaginata per cui la maggior parte delle persone è disposta a fare sacrifici, e persino a morire, e la maggior parte dei dirigenti ritengono che i loro principali obblighi siano di portata nazionale.
In un mondo globalizzato, tuttavia, molte persone appartengono a più comunità immaginate. Alcune – locale, regionale, nazionale, cosmopolita - sembrano essere organizzate come cerchi concentrici, dove la forza dell’identità diminuisce allontanandosi dal nucleo, ma, in un’epoca d’informazione globale questa classificazione è diventata confusa.
Oggi molte identità sono cerchi che si sovrappongono - affinità sostenute da Internet e dai viaggi a basso costo. Le diaspore ormai sono a un clic di distanza. I gruppi professionali aderiscono a standard transnazionali. I gruppi di attivisti, dagli ambientalisti ai terroristi, si collegano anche a livello transfrontaliero.
Il risultato è che la sovranità non è più così assoluta e impenetrabile come pareva un tempo. Questa è la realtà che l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha riconosciuto quando ha sancito la responsabilità di proteggere le persone in pericolo negli Stati sovrani.
Ma quale obbligo morale fa presa su un leader come Obama? La teorica della leadership Barbara Kellerman ha denunciato il fallimento morale dell’isolazionismo dell’ex presidente americano Bill Clinton per l’inadeguatezza della sua risposta al genocidio in Ruanda nel 1994. In un certo senso ha ragione. Ma c’erano anche altri leader isolazionisti e nessun Paese ha risposto in modo adeguato.
Se Clinton avesse tentato di inviare truppe americane avrebbe incontrato una dura resistenza nel Congresso degli Stati Uniti. A così poca distanza dalla morte di soldati americani durante l’intervento umanitario in Somalia nel 1993, la pubblica opinione americana non era pronta per un’altra missione militare all’estero.
Così che cosa dovrebbe fare in tali circostanze un leader democraticamente eletto? Clinton ha ammesso che avrebbe potuto fare di più per sollecitare l’Onu e gli altri Paesi a salvare vite umane in Ruanda. Ma i buoni leader oggi sono spesso presi in mezzo tra le loro personali inclinazioni cosmopolite e i loro tradizionali obblighi nei confronti dei cittadini che li hanno eletti.
Fortunatamente l’isolazionismo non è un dettato morale da «tutto o niente». In un mondo in cui le persone si organizzano in comunità nazionali, un ideale puramente cosmopolita non è realistico. La perequazione del reddito globale, ad esempio, non è un obbligo credibile per un leader politico nazionale, ma questo leader potrebbe raccogliere seguaci dicendo che si dovrebbe fare di più per ridurre la povertà e le malattie in tutto il mondo.
Come ha detto il filosofo Kwame Anthony Appiah: «”Non uccidere” è da prendere alla lettera. “Onora il padre e la madre” ammette gradazioni».
Lo stesso vale per cosmopolitismo contro isolazionismo. Possiamo ammirare i capi che fanno sforzi per aumentare nei loro seguaci il senso dei doveri morali oltre i confini nazionali, ma serve a poco pretendere dai leader uno standard impossibile che finirebbe per minare la loro capacità di rimanere leader.
Obama, alle prese con la necessità di misurare le sue responsabilità in Siria e altrove, si trova di fronte a un grave dilemma morale. Come dice Appiah gli obblighi al di là dei confini nazionali sono una questione di sfumature, e ci sono anche gradi di intervento, che vanno dagli aiuti ai rifugiati fino alle armi e diversi livelli di uso della forza.
Ma anche optando per queste scelte graduali, un leader deve ai suoi seguaci la prudenza - deve ricordare il giuramento di Ippocrate: primo, non nuocere. Ignatieff dice che Obama si trova già alle prese con le conseguenze della sua inazione; Friedman gli ricorda la virtù della prudenza. Povero Obama.
(*) Professore ad Harvard e autore di Presidential Leadership and the Creation of the American Era.
Copyright: Project Syndicate, 2014
www.project-syndicate.org
Traduzione di Carla Reschia
Joseph S. Nye, Jr.(*)
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