domenica 6 aprile 2014

LA STORIA DI PIERANTONIO COSTA, L'UOMO CHE FACENDO "CIO' CHE DOVEVO FARE" SALVO CENTINAIA DI VITE IN RUANDA


Bè gli italiani sono anche questi e fa un grande piacere ricordarlo.
E ho una convinzione. A volte la vita mette noi persone "normali" di fronte a drammatici bivi, dove da una parte c'è la nostra sicurezza , dall'altra il tentativo di fare del bene rischiando tantissimo, financo la vita. 
Forse resteremo sorpresi di vedere quanta sia FOLTA la minoranza che sceglie la seconda strada.
Buona Lettura



Lo Schindler italiano: 
«Ho fatto solo il mio dovere» 
Vive ancora là, nella casa di Kigali dove la sera del 6 aprile 1994 ricevette la telefonata della sua segretaria: «Hanno abbattuto l’aereo del presidente Habyarimana». Allora Pierantonio Costa, imprenditore e console italiano in Ruanda, capì che sarebbe scoppiato l’inferno. «Quella stessa notte si aprì la caccia ai tutsi», racconta al telefono. In 100 giorni, quasi un milione di morti. Circa duemila sopravvissuti devono la vita a questo signore schivo e gentile nato a Mestre nel ‘39. Lo Schindler italiano del Ruanda, così l’hanno chiamato. L’hanno proposto per il Nobel e dieci anni fa l’hanno raccontato nel libro «La lista del Console» (edizioni Paoline). «Sono contrario alla mia glorificazione, ho fatto quello che dovevo fare». Intanto è bello che sia ancora là, nel cuore dell’Africa dove andò ragazzo per raggiungere il padre emigrato in Zaire. E’ bello sentirlo raccontare con un mix di passione e ritrosia di come nei primi giorni si spese per mettere in salvo gli italiani, caricati sui nostri C-130 dagli uomini del Col Moschin, mentre cominciava il massacro dei tutsi, «pianificato da tempo», e i Caschi Blu dell’Onu «non facevano nulla». Costa viveva a Kigali da 30 anni, la sua ditta di trasporti, passata dai pneumatici ai computer, contava 150 dipendenti. «Alcuni di loro, per fortuna non molti, sono rimasti uccisi, altri si schierarono dalla parte dei genocidiari». Molti dei vivi sono andati in pensione: «Oltre il 50% degli abitanti di questo Paese è nato dopo il genocidio. Per i ragazzi è più facile. Lo vedo anche con i miei nipotini che vanno a scuola qui: per forza, le giovani generazioni hanno meno conti aperti con il passato». Il signor Costa ogni tanto incontra qualcuno che gli dice: «Si ricorda quando mi ha preso su con la macchina e mi ha portato oltre il confine? Io li guardo e sorrido: no che non mi ricordo».
Dal Burundi, dove era riparato a casa del fratello, Costa tornò in Ruanda infinite volte in quei 100 giorni di inferno. Un salvatore pendolare: «Attraversavo il confine in macchina, da solo, con un Suv tappezzato di bandierine italiane» e rotolini di denaro nascosti addosso per pagare i miliziani hutu ai posti di blocco, ungere le ruote giuste, comprare vite. Rientrava in Burundi con un bottino umano, a volte alla testa di un convoglio di auto, a volte soltanto con il Suv tricolore, passando accanto alle fosse comuni dove i feriti venivano lasciati sanguinare a morte. Cominciò a fare la spola quando seppe che due missionari italiani rifiutavano di lasciare i bambini di un orfanotrofio non lontano dal confine. A poco a poco allargò il raggio di azione e di salvezza. Un paio di volte se l’è vista brutta, ma non gli va di parlarne. Innamorato del Ruanda, oggi vive tra Kigali e Bruxelles, «ma quando sono in Europa mi annoio mentre qui va tutto veloce». Vent’anni dopo il genocidio, alle 581 tonnellate di machete comprate per l’occasione si sono sostituiti i chilometri di fibra ottica che vanno a innervare uno dei pochi miracoli economici dell’Africa contemporanea. Luci e ombre naturalmente. Costa parla al Corriere dal telefonino dell’ambasciatore italiano Stefano Dejak: nella sua residenza a Kampala è nata la pionieristica Camera di commercio italiana in Africa orientale. Tra i fondatori ci sono i figli del signor Costa, un salvatore pendolare (non paragonatelo a Schindler perché si arrabbia), un italiano in Ruanda. Schivo e gentile, «ha fatto quel che doveva fare». E ora si gode la scena: dai machete alla fibra ottica.

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