venerdì 9 maggio 2014

RENZI HA NEMICI ANTIPATICI. PUò BASTARE PER VOTARLO ?


Molti amici sono conquistati dal Renzi oppositore della prepotenza sindacale, e li capisco. Anche io mi stropiccio gli occhi. E ammetto che diverse (non tutte)  parole d'ordine renziane  hanno questo fascino suggestivo. 
Ma non era così anche nel 1994, con altri affabulatori sulla scena ? 
Andando in concreto, non solo Renzino ha fatto poco, ma questo si potrebbe anche ammettere che tre mesi scarsi al governo sono pochi , ma i suoi cantieri sono belli incasinati ! 
Come ho scritto in altre occasioni, credo che lui paghi l'essere voluto andare a Palazzo Chigi senza una forza parlamentare SUA, giocando su un potere di posizione, acquisito con la conquista della segreteria, cui non corrisponde una forza equivalente a Montecitorio e Palazzo Madama.
E anche se andassero bene le europee, come i sondaggi pronosticano, e Renzi potrà vantarsi di aver guidato il PD dal 25% di Bersani all'oltre 30 (magari sarà raggiunto o addirittura superato il record di Veltroni, 33%, anche se a quella percentuale NON corrisponderanno altrettanti voti, che l'astensione si prevede alta ), resterà sempre il problema che la sinistra PD, quella pappa e ciccia con Camusso e dintorni, nel PArlamento Nazionale ha una sua forza ben precisa e cercherà di sfruttarla per ostacolare le riforme renziane. 
Peraltro, con L'Italicum ancora in corso d'opera, nemmeno la strada delle elezioni anticipate è semplice per il Premier, per quanto venga "minacciata" di sovente. E' una pistola scarica, allo stato, che col proporzionale puro vigente post Consulta, Renzi migliorerebbe sì i suoi equilibri interni, avendo finalmente una maggioranza relativa formata da parlamentari PD più in linea con la segreteria, ma una più debole nel governo, non godendo del premio  elettorale che aveva soccorso la "non vittoria" bersaniana. A quel punto le larghe intese tornerebbero imperative, o con Grillo (difficile), o con il centro destra (indigeste). 
L'unica speranza, per i fautori del cambiamento, è che l'impatto psicologico di un forte risultato alle europee condizioni e alteri gli attuali equilibri, ridando smalto a Matteo e indebolendo l'opposizione interna e sindacale.
Nell'attesa, suggerisco la lettura di Davide Giacalone, che nel duello tra Renzi e Camusso vede solo uno scontro nel vuoto.

Scontro nel vuoto

Lo scontro fra il segretario della Cgil, Susanna Camusso, e quello del Pd, Matteo Renzi, non è sulle politiche del lavoro, ma sulle rispettive identità e influenze politiche. Il sindacato perde rappresentatività da molti anni, raccoglie l’adesione solo di una minoranza di lavoratori e ha nei pensionati la maggioranza dei propri aderenti. Non è ben messo. Il segretario del Partito democratico, dal canto suo, è arrivato a palazzo Chigi dovendo rinunciare all’investitura elettorale, quindi senza una propria maggioranza, il che lo porta a non poche contraddizioni: sul tema delle riforme costituzionali il suo lavoro si regge grazie a un accordo con l’opposizione; sul tema del lavoro ha rinviato le riforme profonde ed è costretto a porre, a distanza di pochi giorni, la fiducia su due testi diversi. Non è ben messo. La salute democratica non è splendente, posto che i vincenti si disputano non la guida della maggioranza, ma della minoranza.
La presidenza renziana si regge su due puntelli: da una parte l’accordo con Silvio Berlusconi, dall’altro con Maurizio Landini (segretario della Fiom). Quest’ultimo è il principale oppositore della Camusso, dentro la Cgil. Difficile immaginare che la signora avesse altra strada che non picchiare. Ma questa è tattica interna alla sinistra, nell’eterna riproposizione del conflitto fra quella che prova a essere governativa e quella che prova a restare sindacale. Diciamo che un italiano medio normale può anche disinteressarsene del tutto. Non altrettanto del merito, delle leggi che regolano il mondo del lavoro. Fin qui lo scontro è sulle bandiere, non sulla sostanza. Perché la sostanza non c’è.
Il decreto impostato dal ministro Giuliano Poletti, ad esempio, aveva, nella stesura originaria, la forte impronta di quel che i sindacalisti chiamano “padronato”. Lui, il ministro, del resto, è comunista dalla nascita, ma amministrando le Coop sa bene che il conto economico deve tornare ed è abituato a chiedere una sola cosa, ai lavoratori: lavorare. Però è stato cambiato. Cesare Damiano lo aveva detto chiaramente: il ministro si rassegni, lo cambieremo in modo sostanziale. E lo hanno fatto. Dopo di che il governo, alla Camera, pose la fiducia, per evitare di perdere i voti di Scelta Civica e Nuovo Centro Destra (ammesso, e molto generosamente concesso che quelle forze siano propense a privilegiare quale che sia questione di contenuto sulla permanenza in vita del governo). Al Senato il decreto è stato ricambiato, perché in commissione non c’è prevalenza di ex Cgil, come alla Camera. Ora il governo rimette la fiducia. Una specie di fiducia purché sia.
In quanto ai mitici 80 euro in busta paga, quelli non c’entrano nulla con le politiche del lavoro. Anzi, si reggono sull’idea che uno sconto fiscale (quindi un mancato introito per l’erario, quindi un provvedimento a spese della collettività, tanto che sulle coperture si fatica) serva a rilanciare o almeno reggere i consumi. Il che non ha nulla a che vedere con il guadagno di competitività, quindi con le regole del lavoro e dell’impresa. Nulla. Semmai somiglia alla logica della cassa integrazione guadagni: sostegno a chi ne ha bisogno e, al tempo stesso, sostegno ai consumi. La ricetta cui dobbiamo lo scasso dei conti pubblici. Di produttività se ne parlerà un’altra volta. E ciò a tacere dell’ideona innovativa per il pubblico impiego: prepensionamenti. Che non solo fa a cazzotti con le riforme (plurale maniacale) delle pensioni, ma è roba che Remo Gaspari considerava antiquata nel secolo scorso.
Ciò per dire che le tattiche dello scontro interno alla sinistra possono essere appassionanti solo per i cultori della materia, le idee nuove si devono ancora vedere, ma le riforme necessarie, quelle che altri europei hanno fatto (anche dolorosamente), riguadagnando competitività e, quindi, propiziando una crescita che noi non possiamo neanche sperare, ecco, quelle riforme non si vedono neanche con il binocolo. Sicché, in conclusione, lo scontro fra Camusso e Renzi è tutto condotto secondo le regole dei talk show televisivi, usando parole e concetti che parlano di vecchio e nuovo, solidarietà e mercato, conservazione e rinnovamento. Si può anche lasciarsi trascinare, salvo accorgersi, sconsolatamente, d’essere sempre al punto di partenza. Il prodotto interno lordo non cresce con i dibattiti. Difatti da noi non cresce.

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