Nel racconto di Federico Varese, si fa fatica, in primo luogo, a vedere il bicchiere a metà, ed è praticamente impossibile, poi, ancorché si riesca nella prima impresa, a ritenerlo metà pieno !
Perché le immagini desolanti della Sicilia in perenne ostaggio della mafia, che pure in molti danno per sostanzialmente sconfitta ( sono Camorra e 'Ndrangheta in buona salute...), francamente non vengono bilanciate a sufficienza dagli esempi di coraggio civile che pure il giornalista descrive.
Il fatto che i negozi realizzati con capitali e materiali confiscati all'"onorata società" siano ammirevolmente portati avanti da persone che rischiano molto a sfidare, con cotanto oltraggio, i mafiosi dell'isola, è indubbiamente un fatto positivo e oltretutto molto più significativo e utile rispetto alle dozzinali cerimonie che ormai stucchevolmente si ripetono, con un'inflazione che ha, temo, come più sicuro risultato la disaffezione dei siciliani onesti, stanchi di vedere troppe cerimonie e pochi fatti.
Però a me colpisce altrettanto se non di più che di fronte a queste attività la mafia abbia forza e sfrontatezza per realizzare negozi rivali, concorrenti, gestiti all'insegna della provocazione continua, che leggerete ben descritta nell'articolo de La Stampa.
Ma più di tutto colpisce e ferisce la "festa di Capaci" : nel giorno della strage, i mafiosi festeggiano e "non lavorano", come si fa nel giorno della celebrazione di un evento importante e fausto.
Da brividi.
Così la mafia sfida in piazza gli onesti
Palermo ha ricordato di recente l’anniversario della strage
di Capaci. Ma oltre l’apparenza, istituzioni e società civile sono
profondamente spaccate. Nel frattempo, la mafia festeggia, come ho avuto modo
di vedere con i miei occhi.
La lotta alla mafia attraversa una fase burrascosa. Lo
scontro più violento è tra i pm che hanno istruito il processo sulla trattativa
Stato-mafia e chi solleva dubbi sull’impianto accusatorio. Magistrati contro
professori, amici e collaboratori di Falcone contro il Presidente della
Regione.
Mentre il 23 maggio attracca la nave della legalità in
arrivo da Civitavecchia, con a bordo mille e cinquecento ragazzi, e nel
pomeriggio si tiene una cerimonia nell’aula bunker dell’Ucciardone, il fratello
di Francesca Morvillo dichiara: «Credo che questa sia la solita passerella».
Don Ciotti avverte il disagio e propone di smettere di usare la parola
«anti-mafia», snaturata ed inservibile, ormai un’etichetta politically correct.
Quella stessa mattina di maggio l’autotrasportatore di un
noto grossista palermitano fa il giro dei clienti. Come al solito, deve
rifornire una decina di piccoli negozi della città siciliana. Arrivato presso
uno di questi, si appresta a scaricare la merce, ma il titolare lo informa che
quel giorno non si lavora. Perplesso, il rifornitore si sente dire, in dialetto
stretto: «Cugino, oggi facciamo festa: la festa di Capaci» (Cuscì, oggi facemo
festa: a festa di Capaci). Mentre una parte d’Italia ricorda i suoi morti e si
divide in feroci polemiche, un’altra festeggia il massacro di Falcone, della
moglie Francesca Morvillo e degli agenti Schifani, Dicillo e Montinaro. Questa
è l’Italia.
Io la mattina del 23 maggio mi trovo nell’azienda per cui
lavora quell’autotrasportatore, in una piazzetta a pochi passi da un mercato
nel cuore della Palermo popolare e suggestiva, che piace ai turisti in cerca di
colore locale. Diversi posteggiatori abusivi stazionano nella piazza,
pretendendo un obolo per un servizio che nessuno chiede loro. Un po’ di
macchine sono parcheggiate proprio di fronte all’ingresso dell’azienda, segno
che essa non gode di grande simpatia nella zona. La ragione è semplice:
l’esercizio commerciale è stato sequestrato dalla Dia di recente. Il titolare,
arrestato per tentato omicidio, è - secondo l’accusa - un referente di Cosa
Nostra, un evasore fiscale che riceve illegalmente contributi europei e ruba le
merci ai concorrenti. Gestisce un impero di decine di milioni di euro, fatto di
case, ristoranti, mezzi e imprese. Ma cosa succede a questi beni una volta che
sono stati confiscati? Queste domanda è cruciale, se vogliamo sconfiggere
l’illegalità e far rinascere un’economia pulita (lo studioso siciliano Carmelo
Provenzano analizza con passione e acume questo tema). Mentre parlo col giovane
manager e con i due dipendenti che sono subentrati alla vecchia
amministrazione, cala un silenzio di tomba. Nel negozio entra un giovane. Cosa
vuole?
Dovete sapere che una strategia vessatoria di Cosa Nostra
consiste nell’aprire un esercizio clone nelle immediate vicinanze del negozio
sequestrato. Nel nostro caso, è dall’altra parte della piazza, una azienda
fotocopia con logo e insegne identici. Ovviamente vende la stessa merce. Quel
signore che finge di voler acquistare quello che lui stesso commercia e mi
guarda di traverso, è qui per mandare un messaggio: «Potete sequestrare quello
che volete, ma noi riapriamo la stessa azienda sotto i vostri occhi, vi rubiamo
i clienti, parcheggiamo abusivamente davanti alle vostre vetrine, e siamo qui
per intimidire i vostri ospiti». Insomma, I padroni siamo sempre noi, sembra
volermi dire. In questa piccola piazza, mafia e antimafia quotidiana si
guardano negli occhi tutti i giorni. L’Organizzazione non accetta che
imprenditori onesti gestiscano i «suoi» beni. Il giovane manager mi racconta
dell’ingente furto che ha subìto di recente. Un dipendente aggiunge che tutti i
giorni, quando si appresta ad aprire il negozio, cadono decine di monetine
conficcate nottetempo negli interstizi della saracinesca. Ecco un altro
messaggio chiarissimo per chi si intende di ermeneutica criminale: «Te li diamo
noi gli spiccioli, ma smetti di lavorare per gli sbirri».
Possiamo imparare molte cose dalla tenacia di chi, tutti i
giorni, tiene aperti gli esercizi confiscati alla mafia. Innanzi tutto non è
vero che l’amministrazione pubblica dei beni confiscati porti inesorabilmente
al fallimento (come sottolineato di recente da Silvana Saguto, il presidente
della sezione di misure di prevenzione del Tribunale di Palermo). Ma
l’obiettivo è uscire dall’emergenza: non è pensabile che gran parte
dell’economia dell’isola sia amministrata da un tribunale. Inoltre non è vero
che «mafia uguale lavoro». Nelle aziende sotto il controllo della criminalità
organizzata in Sicilia i lavoratori non hanno diritti e molto spesso la busta
paga viene decurtata dai manager collusi. Un dipendente rivela: «La nuova
amministrazione ci lascia tutto».
Quando mi appresto a risalire in macchina mi accorgo che
l’uomo che era entrato nel negozio è ora piantato in mezzo alla piazza e mi sta
fotografando col cellulare. Mentre mi giro per salutare l’amministratore e i
due dipendenti penso che alzare tutti i giorni quella saracinesca sia un atto
quotidiano di rivolta che sarebbe piaciuto ad Albert Camus. Come ebbe a
scrivere il grande scrittore francese, «fu nel pieno dell’inverno che ho
scoperto dentro di me un’estate che non si dà per vinta».
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