Mentre leggevo l'articolo , postato nella pagina delle opinioni del Corriere, ero convinto che l'autore fosse Sergio Romano, campione mondiale della real politik spinta fino al cinismo ( e sì che io non sono certo un idealista ! ). Invece no, si trattava di Massimo Nava. E così scopro che i cinici duri e puri al Corriere sono due (tra gli idealisti, sicuramente BH Levy).
La tesi sostenuta da Nava è semplice : la stabilità vale più della democrazia. Su questo in realtà io sono d'accordo con lui, se il concetto lo affermiamo fuori dal mondo occidentale dove invece le istituzioni democratiche hanno avuto modo di attecchire in modo discretamente saldo, e dove i pro possiamo ritenere superino i contro ( ma accetto contestazioni in merito...) . Al di fuori dell'occiente, e nel mondo islamico in particolare, la democrazia non è qualcosa di praticabile, almeno non ora ( e chissà quando). Troppo forti le divisioni tribali sostenute dai diversi credo religiosi, in un mondo dove la fede ha un ruolo fondamentale nella vita civile, rispetto a noialtri secolarizzati, per non dire atei o agnostici.
Il problema caro Nava è che fare quando parte della popolazione, perché sciita anziché sunnita ( e viceversa), perché cristiana e non musulmana, e via così, viene perseguitata e massacrata. E' tutto qui. Alla fine i talebani torneranno in Afghanistan , le donne torneranno a dover mettere il burqa volenti o nolenti, a non poter lavorare, la vita sarà scandita dai versetti del corano interpretati dai vari Mullah...Alla fine dovremo dire : pazienza, ci abbiamo provato e non siamo riusciti. Ma quando , come ho scritto prima, la gente viene perseguitata e uccisa per il proprio credo, si può restare a guardare ?
Anche Nava ovviamente comprende che non è possibile, ma come soluzione lui pensa ad accordarsi con l'Iran, la Russia, la Turchia...Anche qui, potrei essere d'accordo, ma in che modo esattamente ? La Russia vuole che l'Ucraina ritorni sotto il suo tallone e noi dobbiamo lasciarla fare per non contrariare Putin ? L'Iran si dota della bomba nucleare e noi dobbiamo aver fiducia che la impiegherà con giudizio ? Forse in Israele non è facile pensarla così, specie sentendo i discorsi dei farneticanti leader di quel paese (ultimamente c'è da dire che il tema della distruzione di Israele è stato accantonato...). Già meglio la Turchia, pur accettando l'autoritarismo crescente di Erdogan, ma francamente non so quanto effettivamente questa nazione possa influire in quello scacchiere. In Siria non mi sembra che i moniti turchi ad Assad abbiano sortito effetto alcuno, né che la situazione in quel paese sia imputabile all'interventismo occidentale (anzi, c'è chi sostiene il contrario).
Tralasciando il caso drammatico ed intricatissimo delle regioni medio orientali, approfitto del riferimento di Nava alla eh Jugoslavia per esprimere un concetto che mi sta a cuore.
Sono diverse - per fortuna minoranza - le persone che sostengono che la Germania in primis e gli Usa , con Clinton, poi,abbiano la responsabilità della instabilità dei Balcani.
Io non la penso così. Intanto, Slovenia e Croazia sono stati indipendenti e ben felici di esserlo, che nessuna voglia avevano di stare con i serbi e non c'è nessun caos in questi paesi malessere economico sì,come in tutta Europa). IL problema può riguardare regioni dove la multietnicità delle popolazioni era più spiccata, con forti minoranze serbe , penso al Kosovo ma anche alla Bosnia. Però si ritorna sempre lì : l'Onu era intervenuta per cercare di proteggere le popolazioni civili, senza entrare in aperto conflitto coi Serbi di Milosevic, col risultato di tragedie come Srebrenica e Sarajevo, vergogne imperiture della comunità internazionale e dell'Europa in particolare.
No, le bombe a volte risolvono. Non tutto, ma qualcosa sì.
Del resto Nava e Romano sembrano non ricordarsi come la diplomazia non abbia impedito la seconda guerra mondiale, ma l'abbia solo ritardata, consentendo al nazismo di rinforzarsi militarmente e creando le premesse di una sua vittoria, mancata di poco.
Se la stabilità vale più della democrazia
Di fronte agli orrori dell’Iraq e ai conflitti che stanno insanguinando diversi angoli del mondo, si è tentati di immaginare un’impossibile clonazione di dittatori e si è costretti a constatare amaramente quanto sarebbero più opportune la cautela e la riflessione prima di favorirne la caduta. Può suonare disperante rivalutare il ruolo di personaggi negativi come Saddam, Gheddafi, Mubarak e forse persino Milosevic, ma di sicuro non è il caso di rimpiangere la politica estera di Bush, Blair, Clinton, Sarkozy, basata sulla concezione sciagurata di ritenere esportabile la democrazia con le bombe e che fosse sufficiente la liquidazione di un regime per vedere la rinascita della società civile e la crescita di nuove classi dirigenti. Oggi ci troviamo a fare i conti con le conseguenze di interventi sbagliati, al più tardivi e non seguiti da una forte politica di ricostruzione e sostegno del nuovo corso.
Certo, è bene tenere presente che ogni conflitto presenta cause ed effetti specifici e che in nessun caso le soluzioni sono semplici. Ma ciò che sta accadendo in Iraq, in Siria, in Libia e ciò che è già accaduto in Afghanistan, suscita soprattutto interrogativi sulle strategie adottate, su risposte inadeguate a situazioni apparentemente irrisolvibili. Si è costretti a constatare oggettivamente la sconfitta di una politica, di una visione del mondo e, in ultima analisi, dell’Occidente (Usa e alleati europei) per l’ incapacità di misurare le conseguenze di un’azione e di elaborare rapidamente i rimedi nell’ambito di una governance mondiale che tenga conto di altri sistemi politici e nuove potenze, oltre che del contesto storico e sociale specifico.
Forse sarebbe stata sufficiente la memoria storica. Ad esempio, ricordare che in Afghanistan sono stati sconfitti prima degli americani l’impero britannico e l’impero sovietico. Che i Balcani producono tragedie con la stessa rapidità di un cerino acceso in un pagliaio. Che a Bagdad sono finiti male tutti coloro che si sono presentati come liberatori e che qui si ritiene sia stato avvelenato Alessandro Magno. Che con grandi potenze come la Russia, dal tempo di Napoleone, si devono trovare accordi nel rispetto di interessi reciproci, che tengano anche conto delle sfere d’influenza.
Oggi la memoria corta ci obbliga a valutazioni imbarazzanti, persino al di sotto dell’etica. A ripensare come un «valore» prevalente la stabilità di aree politiche e geografiche, a fare i conti con regimi ben al di sotto di standard democratici. Del resto, esistono regimi e Paesi con i quali si continuano a fare affari e investimenti senza interrogarsi sui diritti e sulle condizioni sociali delle popolazioni. È un fatto che il ritorno dei militari al potere in Egitto (una clonazione del precedente regime?) rappresenti oggi un minimo di stabilità nella regione, un attore indispensabile per il conflitto in Palestina e una barriera all’islamizzazione radicale del Paese. È un fatto che la spietata repressione in atto in Siria stia arginando la dissoluzione del Paese e la consegna di territori e popolazioni al progetto di califfato islamico. Ed è un fatto che la crisi ucraina non sia risolvibile soltanto con le sanzioni contro la Russia di Putin.
Non si tratta di nostalgia dell’immobilismo né di praticare la logica dell’indifferenza di fronte ai crimini di regimi totalitari, ma di comprendere la moltiplicazione di attori e la complessità globale delle forze economiche, politiche e religiose in campo. Ovunque si è preteso di sostenere o imporre soluzioni a senso unico, per quanto motivate da ragioni etiche e valori democratici, i risultati sono stati spesso peggiori rispetto alla situazione che si pretendeva di cambiare. E oggi occorre correre ai ripari in condizioni oggettivamente più difficili, come nell’Iraq devastato dal terrorismo e dalle fazioni religiose.
Dopo il disastro iracheno, ci si può naturalmente limitare ad armare i curdi e a un soccorso umanitario dei cristiani e magari ad accoglierne qualche migliaio nelle nostre città, mettendo così fra parentesi (come se si trattasse di massacri o esodi di serie B) i profughi in fuga dalla Siria e dalle coste africane. Ma — vista l’inconsistenza di nobili ideali non sorretti da azioni conseguenti — sarebbe il momento di scelte più pragmatiche e in ultima analisi più intelligenti. Come? Con un atteggiamento più aperto verso il regime di Teheran, indispensabile interlocutore per il mondo sciita e per diverse aree di crisi in Medio Oriente. Con una valutazione più attenta della crisi delle relazioni con la Russia, protagonista non secondaria sullo stesso scacchiere. Con la massima attenzione alla Turchia, il cui ruolo per la stabilità dell’area resta fondamentale.
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