Mi sembra interessante l'analisi che Danilo Taino fa commentando sul Corriere le critiche e le previsioni negative che l'agenzia di rating Moody's fa all'Italia dopo i tristi dati dell'Istat della settimana scorsa.
Nel proporlo, c'è però anche da registrare i dati OCSE che indicano invece un andamento del nostro paese, nell'ultimo anno, migliore rispetto alla media di quellI europei. Il superindice dell’Ocse, che raccoglie una lunga serie di indicatori, è considerato un segnale assai attendibile dell’evoluzione nel breve periodo. Ebbene, tra giugno 2013 e giugno 2014 l’indice italiano ha registrato un progresso del 2,15% che sebbene in rallentamento rispetto al tendenziale dei mesi precedenti, resta il più alto tra i paesi europei e del G7, con la Germania in continuo peggioramento.Quindi ? Tesi contraddittorie ? Bicchiere a metà, con Moody's a vedere la parte vuota e l'OCSE quella piena ? Sarei ben felice che mi venissero spiegati questi indici in progresso, quali comparti riguardino. Sicuramente non il debito, che è cresciuto, non la crescita; forse è frenata la disoccupazione (non quella giovanile), mentre si hanno forti timori sui conti, in merito al deficit, da tenere sotto il 3%, non immaginando di azionare ancora la leva fiscale su un paese vessatissimo su quel fronte.
Anche le esportazioni, che erano quelle che ci avevano riportato sopra il segno zero nel PIL a fine 2013, ora sono entrate in sofferenza.
Dunque l'OCSE a cosa si riferisce ? Per fare il bagno più sereni....
il Passo lento che Frena l’intera Eurozona
Grecia, Spagna e Portogallo
più veloci
nel realizzare le riforme
nel realizzare le riforme
Il nostro paese e l’Irlanda in coda
Che Moody’s rivedesse — in peggioramento — le prospettive della crescita economica, del deficit e del debito dell’Italia era scontato: lo stanno facendo tutti, dopo l’annuncio, mercoledì scorso, del calo del Prodotto interno lordo nel secondo trimestre. La cosa interessante della breve analisi pubblicata ieri dall’agenzia di rating americana è piuttosto la sottolineatura della lentezza del processo di riforme strutturali di cui soffre il Paese e le conseguenze che essa fa intravedere in termini di tensioni future con i partner europei e con la Banca centrale.
Per fotografare l’attività di riforma italiana — condivisa e ritenuta urgente da tutti, a iniziare dal governo — Moody’s usa un indicatore dell’Ocse, l’Indice della Reattività alla Riforma: nell’ambito dell’iniziativa «Going for Growth», il centro studi delle economie avanzate ha individuato per ogni Paese cinque riforme strutturali prioritarie per fare aumentare la crescita reale. L’Indice ne misura la realizzazione, e dunque il passo riformista dei diversi governi. Applicato ai maggiori Paesi colpiti dalla crisi, risulta che la Grecia ha riformato di più (sotto la pressione di mercati, Ue, Bce e Fondo monetario internazionale): si avvicina a un indice di 1,6. La Spagna sfiora l’1,5, il Portogallo non è lontano dall’1,3 mentre Italia e Irlanda superano di poco lo 0,6. Siamo parecchio indietro, come d’altra parte ha ricordato il presidente della Bce Mario Draghi giovedì scorso e come ha ben presente il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan che dell’iniziativa «Going for Growth» fu uno degli ispiratori quando era vice-segretario generale e capo economista dell’Ocse.
Secondo Moody’s, «è probabile che il passo lento della riforma e le inadempienze nella performance di bilancio aumentino ulteriormente le tensioni tra l’Italia e alcuni dei suoi partner europei, più precisamente la Germania». Non è solo questione di rispetto degli impegni presi a Bruxelles: si prefigura una dinamica economico-politica forse ancora più rilevante. Innanzitutto, c’è la fiducia da ricostruire tra partner della Ue, tra Nord e Sud: un obiettivo che Matteo Renzi e Padoan si erano posti, da ottenere garantendo a Bruxelles di mettere le riforme strutturali in testa alla lista delle priorità. Che tutte le economie diventino efficienti, nessuna esclusa, è infatti interesse dell’intera Eurozona: altrimenti, le politiche della Ue e della Bce non possono funzionare, in quanto se vanno bene un per un Paese debole vanno male per uno forte, e viceversa. È la teoria di Angela Merkel, secondo la quale l’euro vacilla se non si fanno i «compiti a casa». Il guaio è che finora l’Italia li ha fatti meno degli altri: una realtà che, se non verrà corretta, non ricostruirà alcun clima di fiducia, anzi avrà conseguenze politiche.
Il secondo aspetto che può creare tensioni è collegato ma riguarda la Bce. Giovedì scorso, Draghi ha ricordato più volte, riferendosi proprio all’Italia, che una politica monetaria può essere espansiva finché si vuole, che la Bce può inondare le banche di denaro da prestare all’economia, ma se l’economia stessa è impedita da lacci e lacciuoli, da storture strutturali e dalla burocrazia sarà essa stessa a non domandare credito: per l’impossibilità di farlo lavorare, di metterlo a frutto. In altri termini: sia dal punto di vista della politica di bilancio, sottoposta ai vincoli di Bruxelles, sia da quello della politica monetaria della Bce, la lentezza delle riforme italiane non è solo un limite nazionale ma un problema per tutta l’Eurozona. Detto a rovescio, se Bruxelles e Francoforte si trovassero obbligate a fare politiche mirate a un’Italia che non fa le riforme (mentre gli altri le fanno) rischierebbero non solo di mandare su tutte le furie 17 Paesi (Germania in testa) per accontentarne uno: finirebbero anche con il fare le politiche sbagliate per l’insieme dell’Eurozona. Ieri, il Wall Street Journal poneva il dilemma in questi termini: si tratterà di stabilire se «l’euro sopravvive in termini tedeschi o italiani» (e — ci sarebbe da aggiungere — è molto improbabile che nel secondo caso Berlino lo accetterebbe).
Anche Moody’s, insomma, indica che la mancanza di riforme strutturali dell’economia italiana è a tutti gli effetti un problema europeo. Il vantaggio di Renzi è che può provare a risolverlo.
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