Aspettavo con fiducia l'arrivo del commento di Sergio Romano sulla crisi irachena e sulla condotta di Obama, presidente che l'ex ambasciatore ha sempre sostanzialmente difeso, anche perché molto in linea con i due credo principali dell'opinionista : solida real politik (fino al cinismo) e convinzione che bisogni trattare sempre, che la forza è peggio che ingiusta : è inutile.
Naturalmente Romano non è uno stupido e non fa di queste sue linee guida dei must non suscettibili di eccezioni e correzioni. Ecco, pare che il Califfato di Isis sia uno di quei casi, e quindi critica Obama che resta granitico nel suo non interventismo sostanziale. Il comandante in capo degli USA sostiene che non si possono risolvere tutti i problemi con l'uso della forza, ed ha ragione. Solo che in 6 anni lui questa forza , quando ha deciso di usarla, l'ha fatto poco e male.
Nel caso di ISIS Romano vede peraltro l'opportunità di una guerra non solo "giusta", che, ripetiamo, non è la preoccupazione che gli sta più a cuore di solito, ma finalmente "intelligente", perché benvoluta da diverse delle forze geopolitiche di quell'area : Egitto, Turchia e anche Iran.
Certo, gli americani potrebbero dire perché non intervengono loro, da soli o in coalizione, per tagliare le unghie ai fanatici che li preoccupano, ma nessuno può vantare l'apparato militare USA.
Gli americani, ricordiamocelo, le guerre per lo più le vincono : è la Pace che perdono.
L’OSTINAZIONE DI UN PRESIDENTE
di SERGIO ROMANO
Nell’ultima crisi irachena vi è un’altra crisi, forse più
grave: quella di Barack Obama e della sua politica. Il presidente degli Stati
Uniti non può ignorare che le condizioni dell’Iraq, anche dopo il ritiro delle
truppe americane, restano una responsabilità morale del suo Paese. Non può
dimenticare che la nascita a Bagdad di un regime settario, ottusamente sciita,
ostile alla minoranza sunnita, è avvenuta quando il Paese era occupato dalle
sue truppe, non da quelle del suo predecessore . E non può nemmeno ignorare,
soprattutto dopo la disastrosa esperienza libica, che le operazioni dall’aria
sono sempre insufficienti e, quando occorre liberare centomila esseri umani,
inutili. Per salvare i prigionieri dello Stato Islamico bisogna intervenire
militarmente sul terreno, respingere le milizie jihadiste, aprire corridoi
umanitari, consentire ai profughi di rientrare nelle loro case o trovare
alloggio in campi protetti. I droni possono soltanto prolungare l’assedio o
addirittura rendere gli islamisti ancora più spietati.
Ma l’intervento militare non sembra rientrare fra le opzioni di Obama. È profondamente convinto che il principale scopo della sua presidenza sia quello di riparare agli enormi danni politici, morali e finanziari provocati dalle due guerre del suo predecessore. Sin dal primo giorno alla Casa Bianca vuole riconfigurare il ruolo degli Stati Uniti nel mondo, ampliare la gamma dei rapporti con l’Asia, aprire un nuovo fronte diplomatico nel Pacifico, evitare nuovi coinvolgimenti, liquidare le troppe questioni pendenti di un passato ingombrante. Si è duramente scontrato con tutte le correnti imperialiste e belliciste del suo Paese, ha subito insulti e atti ostili generalmente risparmiati al presidente. Ma non ha mai rinunciato al suo programma e ritiene che il ritiro delle truppe americane dai due Paesi in cui hanno combattuto per più di dieci anni sia la decisione politica di cui potrà andare maggiormente orgoglioso. Non è sorprendente che anche in questa recente vicenda irachena si attenga a un impegno continuamente riaffermato: gli Stati Uniti non possono e non vogliono essere un poliziotto globale. Eppure vi sono almeno due considerazioni di cui Obama, in questa particolare vicenda irachena, dovrebbe tenere conto. In primo luogo l’intervento sarebbe completamente diverso da quelli di Bush e persino da quello del 2011 contro Gheddafi. Le guerre del predecessore e quella dall’aria contro il colonnello libico volevano eliminare un regime ed ebbero l’inevitabile effetto di creare instabilità. L’intervento contro lo Stato Islamico, invece, dovrebbe restaurare la stabilità là dove è minacciata da una forza fanatica. In secondo luogo, Obama agirebbe per scopi oggi condivisi da alcune potenze regionali: l’Egitto del generale Al Sisi, anzitutto, ma anche la Turchia del neopresidente Erdogan e l’Iran di Rouhani. Il primo detesta gli islamisti radicali; il secondo è preoccupato dall’incendio che ha contribuito ad alimentare nella vicina Siria; il terzo non desidera perdere le posizioni conquistate a Bagdad. Sarebbe un’alleanza insolita, una inedita Triplice, ma proprio per questo, forse, promettente. Dimostrerebbe che vi sono circostanze in cui gli interessi dell’America coincidono con quelli di una parte importante del mondo musulmano, sunnita e sciita. E potrebbe favorire indirettamente sia la soluzione della crisi siriana sia una più rapida intesa sulla politica nucleare di Teheran. Per gli effetti che potrebbe avere, questa guerra potrebbe essere, oltre che umanitaria, intelligente.
Ma l’intervento militare non sembra rientrare fra le opzioni di Obama. È profondamente convinto che il principale scopo della sua presidenza sia quello di riparare agli enormi danni politici, morali e finanziari provocati dalle due guerre del suo predecessore. Sin dal primo giorno alla Casa Bianca vuole riconfigurare il ruolo degli Stati Uniti nel mondo, ampliare la gamma dei rapporti con l’Asia, aprire un nuovo fronte diplomatico nel Pacifico, evitare nuovi coinvolgimenti, liquidare le troppe questioni pendenti di un passato ingombrante. Si è duramente scontrato con tutte le correnti imperialiste e belliciste del suo Paese, ha subito insulti e atti ostili generalmente risparmiati al presidente. Ma non ha mai rinunciato al suo programma e ritiene che il ritiro delle truppe americane dai due Paesi in cui hanno combattuto per più di dieci anni sia la decisione politica di cui potrà andare maggiormente orgoglioso. Non è sorprendente che anche in questa recente vicenda irachena si attenga a un impegno continuamente riaffermato: gli Stati Uniti non possono e non vogliono essere un poliziotto globale. Eppure vi sono almeno due considerazioni di cui Obama, in questa particolare vicenda irachena, dovrebbe tenere conto. In primo luogo l’intervento sarebbe completamente diverso da quelli di Bush e persino da quello del 2011 contro Gheddafi. Le guerre del predecessore e quella dall’aria contro il colonnello libico volevano eliminare un regime ed ebbero l’inevitabile effetto di creare instabilità. L’intervento contro lo Stato Islamico, invece, dovrebbe restaurare la stabilità là dove è minacciata da una forza fanatica. In secondo luogo, Obama agirebbe per scopi oggi condivisi da alcune potenze regionali: l’Egitto del generale Al Sisi, anzitutto, ma anche la Turchia del neopresidente Erdogan e l’Iran di Rouhani. Il primo detesta gli islamisti radicali; il secondo è preoccupato dall’incendio che ha contribuito ad alimentare nella vicina Siria; il terzo non desidera perdere le posizioni conquistate a Bagdad. Sarebbe un’alleanza insolita, una inedita Triplice, ma proprio per questo, forse, promettente. Dimostrerebbe che vi sono circostanze in cui gli interessi dell’America coincidono con quelli di una parte importante del mondo musulmano, sunnita e sciita. E potrebbe favorire indirettamente sia la soluzione della crisi siriana sia una più rapida intesa sulla politica nucleare di Teheran. Per gli effetti che potrebbe avere, questa guerra potrebbe essere, oltre che umanitaria, intelligente.
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