Un poliziotto, Fabio Tortosa - ma è da verificare che effettivamente si tratti di lui perché sui Social Network si può prendere l'identità di chiunque, almeno per un po', o anche inventarsela - avrebbe scritto sulla propria pagina di FB "Ero alla Diaz, e lo rifarei mille e mille volte". Poi spiega : "Quello che volevamo era contrapporci con forza, con giovane vigoria, con entusiasmo cameratesco a chi aveva, impunemente, dichiarato guerra all'Italia, il mio paese, un paese che mi ha tradito ma che non tradirò".
Pare che il post abbia suscitato più favori che biasimi, nei commenti in Rete, ma questo vuol dire poco (magari una massa di contrari non lo ha letto, oppure lo ha ignorato, ché non valeva la pena rispondere).
La prosa fa pensare ad una certa nostalgia del nostro, e mi verrebbe da obiettare che, alla Diaz, la forza, il vigore e l'entusiasmo furono esercitati su gente a quel punto inerme. Il che non mi suona molto coraggioso. Diversa era la situazione in piazza, e personalmente, e da sempre, mi sono schierato a favore del giovane carabiniere Placanica (poi infatti assolto, senza successive obiezioni da parte della Corte Europea, cui il padre di Carlo Giuliani si era rivolto) contro il suo aggressore. Insomma, se le forze dell'ordine avessero rotto qualche testa in più dei facinorosi di Agnoletto, Casarini e compagnia cantante, io non avrei avuto nulla da obiettare. Anzi.
Ma la Diaz prima e Balzaneto poi furono cose ben diverse. Furono una rappresaglia, una vendetta. Cose che non mi piacciono mai, figuriamoci poi messe in pratica dalle Forze dell'Ordine.
Per questa vicenda ci siamo presi una condanna della Corte di Strasburgo perché l'Italia non prevede nella propria normativa il reato di "tortura" (almeno questa è la vulgata che è passata, chi ha letto la sentenza spiega che non è esattamente così).
Davide Giacalone scrive sulla questione un articolo con le sue considerazioni che, al solito, trovo pertinenti e degne di attenzione.
Buona Lettura
La tortura dell’irresponsabilità
Sentirsi condannare per tortura è già in sé mostruoso, ma è l’intera vicenda legata al G8 di Genova (luglio del 2001) a rappresentare il peggio di un Paese che scivola nell’orrore per mancanza di responsabilità e memoria. I fatti sono gravi, ma è quel che li accompagna a renderli inaccettabili. Disonorevoli. Si tratta di faccende così contorte che, lungi dal volerle o poterle esaurire, preferisco isolarne alcuni punti.
1. In piazza si vide una violenza organizzata e determinata. Reprimerla, anche duramente, non era solo legittimo, ma doveroso. Uno dei violenti perse la vita, ucciso dal rimbalzo di una pallottola esplosa da un carabiniere. Ma quel che stava facendo consisteva nell’attentare alla vita di alcuni carabinieri. Lui era dalla parte del torto, i carabinieri da quella della ragione. Il racconto successivo capovolse le parti, fino a voler far sembrare vittima ed eroe il criminale, mancato carnefice. Si giunse a intitolargli l’aula di un gruppo parlamentare, allora guidato da un signore (Fausto Bertinotti) che, in attesa di rifondare il comunismo, ha trovato di maggiore interesse le questioni di fede. E chissà che colà non ottenga perdono.
2. Un nutrito gruppo di manifestanti, fra i quali si trovavano persone, storie e atteggiamenti diversi (come sempre capita, in questi casi), pensò di passare la notte in una scuola, la Diaz. La Polizia ricevette l’ordine d’intervenire. Alcuni dirigenti, presenti in quel momento, proposero di usare i lacrimogeni, per far uscire gli occupanti. Ma la decisione fu diversa: fare irruzione. Era il termine di una giornata difficile, c’erano già stati scontri durissimi. Chi diede quell’ordine fece una scelta pericolosa. L’irruzione ci fu e si tradusse in un massacro.
3. Non bastasse questo, che già basterebbe, quanti furono fermati e portati nella caserma Bolzaneto ebbero un supplemento di ruvidità. Tanto più ripugnante quanto, a quel punto, del tutto inutile. Non mi piace l’ipocrisia, quindi la dico in modo piatto: se c’è bisogno di picchiare le forze dell’ordine devono farlo, se serve a fermare i violenti è bene farlo, se serve a ridurre il pericolo di violenze più efferate è saggio ordinarlo. Ma picchiare per picchiare è da selvaggi. E quella fu una notte selvaggia.
4. Ci sono stati dei processi, in Italia, e delle condanne. Così come ce ne sono stati con delle assoluzioni (fu processato, e assolto, il carabiniere che aveva sparato e ucciso). Ben prima dei processi, e, comunque, nel loro corso, mancò la sola cosa che era lecito attendersi: un grado superiore che si assumesse la responsabilità dell’accaduto. Non è neanche detto che la cosa dovesse necessariamente avere valore penale, ma ne avrebbe avuto, e molto, morale. Non è accaduto. E questo è molto grave. E’ decisivo e gravissimo.
5. Neanche dal governo e dal mondo politico giunsero assunzioni di responsabilità. Manifestazioni di solidarietà, agli uni o agli altri, ma da parte di soggetti inutilmente estranei alla catena del comando e del potere. Anche questo è molto significativo, perché non esiste potere senza responsabilità e chi rifiuta di assumersene è un impotente alla nascita, o un vile alla crescita. Tenete a mente questi ultimi due punti, perché ci servono a capire il pericolo che corriamo, per il futuro.
6. Si sostenne, in pratica, che se qualche cosa era andato storto (il che era documentato dalle immagini) la responsabilità era da attribuirsi a chi ne era fisico protagonista. Il che, in teoria, ci può anche stare: si arma la mano di un carabiniere o di un poliziotto, ma se poi quello la usa, singolarmente, in modo inappropriato o esagerato, ne risponde personalmente. Non è quello che accadde, però, perché se un’intera truppa si comporta in quel modo è segno che qualcuno aveva innescato il comando, o, se si preferisce, ne aveva perso il controllo. In ambo i casi ne è responsabile. Dico di più: onore e onere del ruolo impone che sia il capo, il primo della gerarchia, ad assumersi la responsabilità, salvo poi usare tutti gli strumenti interni per accertare e punire quelle diverse dalla sua. Il capo della Polizia (era Gianni De Gennaro) non lo fece. Lo stesso fu poi premiato con incarichi di altissimo livello, fino a divenire presidente di Finmeccanica, che con le sue funzioni di allora non hanno nulla a che vedere. Mettiamola così: a comportarsi in quel modo ci guadagnò. Che sia un guadagno anche per la collettività, ne dubito. Per le ragioni che seguono.
7. Il milite o l’agente delle forze dell’ordine, in casi come quelli, risponde agli ordini e rischia la propria incolumità, se non direttamente la pelle. Se, in casi d’incidente, viene anche abbandonato al suo destino, quasi si trovasse da quelle parti per personale trastullo, o per soddisfare il proprio sadismo, la sola cosa che se ne ottiene è il dilagare dell’ammutinamento. Se negli scontri e nelle violenze di piazza, come è poi accaduto anche in altri casi, sebbene meno gravi, è il singolo poliziotto e il singolo carabiniere che risponde di quel che gli succede, saltando la responsabilità dei comandi e quella dell’addestramento cui è stato sottoposto, più prima che poi si trasformeranno quei corpi in un fritto misto di stipendiati ignavi e di invasati fanatici. Che è l’esatto opposto dell’interesse collettivo.
8. Siamo stati condannati (noi tutti, noi italiani), dalla Corte di Strasburgo, per la semplice ragione che un cittadino ha fatto ricorso visto che i suoi aguzzini non sono stati processati per il reato di tortura. E non lo sono stati perché in Italia non esiste. Sebbene l’Italia abbia sottoscritto e ratificato una serie di trattati internazionali che lo prevedono e impongono.
9. Attenti, questo non significa che la tortura sia da noi consentita. Cerchiamo di non perdere la testa. La tortura è esclusa dalla nostra stessa Costituzione! Il fatto è che la definizione e tipizzazione (quindi specificazione di cos’è e quando ricorre) di quel reato è stata costantemente rinviata proprio perché s’è costruito un mondo irresponsabile: i comandi non vogliono gli oneri del comando, mentre risulta evidente che è insensato prendersela con i sottoposti. E con questo siamo arrivati al cuore del male italiano, al nocciolo duro del collettivo disfacimento: la fuga dalle responsabilità.
Quella notte del 21 luglio 2001 sarebbe stato meglio non fosse stata vissuta. Ma è successo. Le persone razionali e le collettività ragionevoli non possono evitare gli errori, ma possono e devono farci i conti, capirne l’origine e lavorare perché non si ripetano. E’ quello che non abbiamo fatto. Ciascuno pensando di rimpiattarsi, tutti supponendo che dimenticare sia meglio che ragionare. Così siamo riusciti a beccarci una condanna per tortura. Che grida vendetta al cospetto del cielo.
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