Il capodanno 2013 lo passai a Trieste, una città bellissima che da tempo volevo visitare. Anfitrione affabile e gentilissimo fu l'amico (oggi le cose tra noi sono più tiepide, credo per la mia aperta avversione per il suo segretario, nonché Premier, al secolo Matteo Renzi) Riccardo, e la breve vacanza fu anche allietata da una bella gita a Lubiana, veramente a pochi km oltre confine, con la compagnia di un'altra collega e amica, la bella "istriana" Caterina.
Furono giornate estremamente piacevoli, di cui conservo un bel ricordo. Così, quando mi sono imbattuto nel ricco, ancorché amaro, articolo di Aldo Cazzullo, sul Corsera, dedicato proprio a Trieste, la sua storia, i suoi problemi passati e presenti, ho voluto postarlo sul blog, per poi conservarlo nell'archivio del Camerlengo.
E magari agli amici della Venezia Giulia farà piacere.
Diventò italiana e iniziò la sua crisi
Trieste,
la città che non vediamo
di ALDO CAZZULLO
TRIESTE Riconosciamolo: Trieste a diventare italiana ci ha perso. Cent’anni fa i triestini erano 234 mila, ed erano i più ricchi dell’Impero; oggi sono 26 mila in meno, e sono i più vecchi del Paese. La città è stata inventata dagli austriaci, e dimenticata dagli italiani.
Quando Riccardo Illy nel 1993 fu eletto sindaco, per prima cosa andò a Roma al ministero dell’Industria per salvare la ferriera, che era lì da quasi due secoli. Il funzionario lo guardò con stupore e gli disse: «Ma la ferriera di Trieste non è già chiusa?». «Ha 1.500 operai» rispose Illy. Alla fine una soluzione si trovò, anche se l’acciaieria fu smontata e rivenduta in Sud America. Si fanno ancora il coke e la ghisa. Ora l’impianto l’ha comprato Arvedi: l’idea è portare la ghisa a Mantova per farne l’acciaio e riportarlo a Trieste per la laminazione; potrebbero venirne 300 posti di lavoro.
Un secolo fa, in questi stessi giorni, i triestini non spasimavano per la guerra. Si sentivano profondamente italiani, affollavano il teatro Verdi costruito come una copia della Scala, leggevano il Corriere e il Piccolo nei caffè, l’11 novembre festeggiavano il compleanno del re Vittorio Emanuele III. La loro era un’Italia dello spirito: le letture di Dante, la laurea a Firenze, la curiosità per Marinetti, che definiva Trieste «la nostra meravigliosa polveriera». Ma gli irredentisti erano una minoranza. James Joyce, che era arrivato qui nel 1904 e non se ne sarebbe mai andato se con la guerra gli austriaci non avessero cacciato gli stranieri, nel poema in prosa «Giacomo Joyce» annota: «Trieste si sta appena svegliando: sulla folla di tetti bruni testudiformi la prima fredda luce del sole; una moltitudine di prostrati scarafaggi attende una liberazione nazionale». Tra loro c’era Umberto Saba: per lui Trento e Trieste erano come diastole e sistole, un binomio che «batte più forte del mio stesso cuore».
La città è di commovente bellezza, ma è assente dall’immaginario nazionale. Viste due scolaresche romane in gita, stupefatte davanti all’iconostasi dorata della chiesa greco-ortodossa di San Nicolò e alle cupole serbo-ortodosse di San Spiridione. Si dicono tra loro che non sembra neppure di essere in Italia; e hanno ragione. Sono nell’unica città della Mitteleuropa costruita sul Mediterraneo. Secondo Claudio Magris «vale anche oggi quello che diceva Slataper quando scriveva che, quando qualcuno viene, non si sa far altro che condurlo per le grigie strade e meravigliarsi che non capisca».
Trieste era un borgo di settemila pescatori quando l’Impero decise di farne un porto franco. La fortuna fu che nel 1866 l’Austria perse Venezia, e nel 1869 l’Adriatico divenne la rotta per il canale di Suez. Al Salone degli Incanti, poetico nome per il mercato del pesce, c’è una mostra nostalgica sugli anni della «Grande Trieste». La città si riempì di mercanti greci, tedeschi, ebrei; funzionari e ufficiali asburgici; banchieri e assicuratori italiani. Finché gli slavi erano domestici e balie, non rappresentavano un problema. Quando nacque un ceto medio sloveno, sostenuto dagli austriaci, la borghesia italiana cominciò a preoccuparsi. Luigi Barzini visitò l’entroterra e scrisse che gli slavi si stavano moltiplicando, ed erano pronti a «un’incruenta guerra di sterminio».
Oggi l’Italia continua a pensare Trieste in un angolo in alto a destra, anche adesso che, dopo il crollo del comunismo, è tornata al centro d’Europa. Il problema è che oltre il confine tutto costa meno, il dentista la benzina la palestra, e a Portorose ci sono pure i casinò. La ferrovia è una vergogna: da Venezia si viaggia a passo d’uomo su vagoni che sanno di stalla. Dall’aeroporto alla città sono 70 euro di taxi. Il meraviglioso mare urbano, la piazza d’acqua con le montagne dell’Istria che quando la bora libera il cielo pare di poter toccare, è quasi vuoto di passeggeri. Da anni stanno attrezzando la stazione marittima per accogliere le navi da crociera che Venezia non vuole più. La Evergreen, società di Taiwan, ha comprato il Lloyd triestino ma dirotta volentieri i container a Capodistria. Il porto nuovo è commissariato. Il porto vecchio è spettrale: vetri rotti, muri smozzicati, erbacce. Il Comune l’ha appena ottenuto dal demanio, dovrebbe farne bar, alberghi, ovviamente l’acquario. Il Silos accanto alla stazione diventerà un centro congressi. Tra un anno apre Eataly nel magazzino vini. Qualcosa insomma si muove.
La notte del 24 maggio 1915 i caveau delle banche furono svuotati, le casseforti caricate su carri di buoi: gli austriaci consideravano la città perduta; spenti i lumi a gas, vuoti i caffè, sbarrate le vie per il Carso. I fanti triestini erano su un altro fronte: combattevano per Francesco Giuseppe in Serbia e in Galizia, contro i russi. Ma in 881 disertarono e andarono a combattere al fianco degli italiani contro gli austriaci, andando incontro a morte quasi certa: se presi prigionieri venivano fucilati. Tra loro c’erano Carlo e Giani Stuparich, che nello zaino avevano Dante, Omero, la Bibbia e Mazzini. C’era l’ebreo Antonio Bergamas, che alla madre scrisse: «Mi riesce le mille volte più dolce morire in faccia al mio paese natale, al mare nostro per la Patria mia naturale, che il morire laggiù nei campi ghiacciati della Galizia…». E c’era il «barbaro sognante» Scipio Slataper, che aveva predetto: «Un giorno, ancora giovane, camminando sul Carso, uno slavo mi scaglierà addosso un sasso corroso e forte e pieno di spigoli. E io cadrò giù…».
Di stranieri Trieste è piena anche oggi. La Sissa, Scuola internazionale di studi superiori avanzati, dove Claudio Magris ha tenuto un corso sui rapporti tra la cultura umanistica e quella scientifica, attrae talenti dall’estero: si lavora a superconduttori che trasportano elettricità per migliaia di chilometri senza perdere un watt. Il centro di fisica teorica guarda il castello di Miramare, dove Carducci vedeva il «teschio mozzo contro te ghignante d’Antonietta». Al Science Park attorno al sincrotrone è nato un pool di piccole aziende da 3.800 addetti. Alla Cartubi si saldano l’acciaio e l’alluminio, che pare sia difficilissimo. Alcatel ha uno stabilimento con 850 dipendenti, che hanno scioperato contro l’ipotesi di vendita; l’azienda smentisce. La Fincantieri fa lavorare ingegneri e architetti: la Carnival ha appena commissionato cinque navi da crociera, e nessuna deve essere uguale all’altra. La Grandi Motori, che la Fiat rilevò quando Trieste divenne italiana, ora è finlandese. L’Its, International talent support, organizza un concorso mondiale di design: vincono quasi sempre i coreani. La sera i ricercatori si mischiano ai ventimila studenti universitari, odore di marijuana come ad Amsterdam, tutti fuori dai caffè con lo spritz in mano.
Eppure la città non si è ancora tolta la patina di tristezza che le viene da una storia tormentata. «Anche el tram de Opcina xe nato disgrazià» dice la canzone. C’era pure Italo Svevo sul molo Audace, il 3 novembre 1918, ad accogliere lo sbarco italiano. Gillo Dorfles il critico aveva otto anni, lo scrittore Boris Pahor cinque: nel ’21 vide il rogo del Narodni Dom, la Casa degli sloveni di Trieste. I fascisti tolsero agli slavi la lingua e anche il cognome. Poi giunsero i nazisti: 700 ebrei furono presi; se ne salvarono venti. Quindi i titini e i loro orrendi massacri: quando arrivarono gli inglesi tentarono di recuperare i corpi dalla foiba di Basovizza, ma trovarono granate inesplose e — raccontano i vecchi triestini — la carogna di un cane nero, gettato come un’eterna maledizione su duemila vittime colpevoli solo di essere italiane. Gli angloamericani si fermarono nove anni. Oggi in centro si vedono gli striscioni del movimento «Territorio Libero di Trieste»: rivendica gli accordi che prevedevano una «città libera», oggi si direbbe un paradiso fiscale.
«Sognano ancora una Montecarlo dell’Est» sorride Riccardo Illy. Suo nonno Ferenc era ungherese di Timisoara, la donna tedesco-irlandese, i nonni materni esuli istriani. «La città è viva, vivace. Il sindaco Cosolini è bravo, ma non ha più un soldo». E la presidente Serracchiani? «La vediamo poco». A ogni angolo c’è un palazzo con la scritta «Generali»: la sede legale è ancora qui, con 2.333 impiegati; ma il quartier generale per l’Italia è emigrato a Mogliano, in Veneto. Cosolini, mamma slovena e papà istriano, dice che «dobbiamo smettere di sentirci speciali, per continuare a esserlo». Del passato resisterà il muro del Pedocin, lo stabilimento dove uomini e donne fanno il bagno separati come in Arabia: «Volevo abbatterlo, hanno protestato tutti».
Oltre 300 volontari triestini morirono in guerra. Antonio Bergamas cadde sul Carso, sua madre Maria fu la donna incaricata di scegliere il milite ignoto. Il 13 dicembre 1915 Scipio Slataper, colpito da una pallottola croata o bosniaca, morì sul Podgora: aveva 27 anni, era già un grande scrittore. Scrive lo storico inglese Mark Thompson che Sidney Sonnino, il ministro degli Esteri artefice dell’ingresso nel grande massacro, aveva predetto che per Trieste diventare italiana sarebbe stata «una rovina». Essere all’altezza dei sogni degli irredentisti, e al di sopra dei demiurghi della sventura: ecco la sfida che un secolo dopo ci lancia Trieste.
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