sabato 23 maggio 2015

POLITO E IL QUADRO DESOLANTE DELLE ELEZIONI REGIONALI ORMAI IMMINENTI

 

La tristezza desolante che sopraggiunge insieme alla domenica del voto regionale - che non riguarda il Lazio (dove Zingaretti peraltro mi sembra, a differenza del sindaco Marino, stia facendo non male, in una situazione che certo facile non è) - già forte di suo, viene rafforzata dalla lettura di analisi come quella di Antonio Polito, che di seguito potere leggere, editoriale odierno del Corriere della Sera.
Però se poi l'astensione diviene il fattore primario, magari superando il 40%, per non dire se toccasse - come accadde in Sicilia all'ultima tornata locale - il 50, si dirà che "siamo diventati una democrazia matura", anzi, "avanzata".
Forse nel senso che ci resteranno tra poco solo gli avanzi, di un sistema veramente democratico e partecipato dai cittadini ?
Polito si pone anche la questione della valenza nazionale del voto, che riguarda sette regioni discretamente popolose ( molto più di un terzo del corpo elettorale sarà, teoricamente, coinvolto).
Oggi la Boschi, che accanto alla Moretti ha pronosticato il cappotto a favore della sinistra con un 7-0 che comporterebbe anche la sconfitta in Veneto del favorito Zaia, dichiara che il voto è "locale", e non può avere ripercussioni sul Governo. Il giornalista ricorda vari casi in cui non è stato propriamente così, e in realtà vedrete che queste dichiarazioni della ministra saranno ben diverse se alla fine, al di là del fenomeno astensione, trasformismi e impresentabili di sorta, il PD vincesse in tutte e sette le regioni o anche sei.
Siccome però temono che, oltre al Veneto, possa accadere qualcosa di improbabile ma non impossibile in Campania, Liguria, addirittura Marche, ecco che vengono messe le mani avanti.
Comprensibile, anche se è sempre noioso sentire le solite litanie propagandistiche pre voto. 





Un voto così poco regionale
di Antonio Polito
 

Queste sono le prime elezioni regionali in cui non contano né le Regioni né i partiti. Di Regioni ormai non parla più nessuno perché il federalismo è uscito sconfitto dalla grande sbornia dell’ultimo ventennio, e se oggi s’avanza qualcosa è piuttosto un nuovo centralismo, sorretto dal decisionismo del governo Renzi. Il potere è a Roma, in periferia sono rimaste solo le addizionali Irpef.
Il discredito dell’ente regionale è tale che un presidente uscente, Stefano Caldoro, ha fatto la campagna elettorale proponendo ufficialmente l’abolizione delle Regioni; e nel suo slogan Michele Emiliano promette di fare «il sindaco di Puglia», visto che i governatori non vanno più di moda. Nichi Vendola, l’ultimo politico capace di costruirsi un ruolo nazionale partendo da una Regione, è praticamente disoccupato.
Non contano più neanche i partiti. Sulla scheda gli elettori troveranno una miriade di simboli indigeni e spesso esoterici, che a capire quali sono di destra e quali di sinistra ci vuole la traduzione simultanea; ma anche le sigle nazionali sembrano ormai più che altro ombrelli, sotto i quali si radunano secondo convenienza le tribù elettorali locali, di solito accorrendo sul carro del probabile vincitore.
Gian Mario Spacca, per esempio, non ha avuto esitazioni a passare dal centrosinistra, che lo aveva eletto la volta scorsa governatore delle Marche, al centrodestra, che promette di eleggerlo questa volta al suo terzo mandato. 

In Puglia la candidata Adriana Poli Bortone è sostenuta da tutte
le sigle del centrodestra tranne quella del suo stesso partito, Fratelli
d’Italia, che invece appoggia il candidato oggi di Fitto ma appena ieri scelto da Berlusconi, insieme alla Lega che in Puglia si schiera con i «moderati» e in Veneto espelle il «moderato» Tosi.
L’arcipelago di liste collegate a De Luca e al Pd in Campania, d’altro canto, si spinge fino a noti nostalgici del fascismo, i quali  dichiarano che non si sentono di aver tradito la causa perché in realtà lo  sceriffo» di Salerno è un vero uomo di destra; e comprende i notabili del partito di Cosentino, l’ex padre padrone del centrodestra che fu duramente combattuto dalla sinistra di De Luca in nome della questione morale, ora in galera per  concorso esterno con i Casalesi. In Liguria la piddina Paita, che chiede a gran voce un voto utile per impedire il successo di Toti e di Forza Italia, ha vinto le primarie col sostegno delle truppe di
Scajola, in ritirata da Forza Italia dopo il suo arresto.
Ernesto Galli della Loggia ha già spiegato su questo giornale come la fine del bipolarismo abbia ripiombato la politica italiana nel vizio antico del trasformismo.
Resta da capire se queste elezioni regionali saranno anche la prova
generale delle prime elezioni politiche della Terza repubblica. Se cioè,
confortato dal successo senza competitori che gli si prospetta, Renzi possa decidere di cogliere l’attimo e di rifare il Parlamento a sua immagine e somiglianza usando l’Italicum fresco di inchiostro, soprattutto se ripresa e occupazione si ostineranno a tardare.
Che il voto di sette Regioni resti senza conseguenze politiche nazionali è in ogni caso improbabile, non sarebbe in linea con la nostra storia recente. Fin da quando sono nati i consigli regionali nel ‘70, queste elezioni hanno assunto il valore di un test di mid term per la solidità dei governi e delle maggioranze.
È appena il caso di ricordare che furono regionali perse per un pugno
di voti a mettere nel 2000 il sigillo di chiusura sulla carriera di premier di D’Alema, o che Veltroni dovette reinventarsi
un futuro da scrittore e regista dopo quelle della disfatta in Sardegna nel 2009. 

Diventeranno invece per Renzi l’apoteosi per una nuova legislatura? 

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