Nella Turchia non tanto avvezza alla democrazia, almeno in senso occidentale, pare che la legge elettorale sia materia costituzionale. Solo questo deve aver impedito ad Erdogan, detentore da almeno due lustri di comode maggioranze parlamentari, di cambiarla in senso renziano...
Già perché a Istanbul, con il 41% la maggioranza non ce l'hai (questione aritmetica) e nessun premio interviene a soccorrere il vincitore.
Pure, nemmeno lì si suicidano...
Certo, Erdogan mastica amaro, e si può stare certi che la prima cosa che avrebbe fatto ( o che farà, se gli capitasse l'occasione) sarebbe proprio di cambiare questa legge poco amica della governabilità ma che in Turchia forse oggi ha salvato le speranze di democrazia di un paese altrimenti avviato ad una pesante radicalizzazione islamista.
Sicuramente il Presidente troverà alleati che gli consentiranno comunque di formare un governo, ma non potrà farlo da SOLO.
E questo, in certi casi, è un bene.
Turchia, un colpo alle ambizioni di Erdogan
Il partito del presidente perde la maggioranza
assoluta e dovrà formare un governo di coalizione
DALLA NOSTRA INVIATA ISTANBUL Tutti gli occhi su Selahattin Demirtas, il piccolo Davide curdo che, con il suo 13%, ha trionfato sul gigante Golia. All’Akp, il Partito Giustizia e Sviluppo del presidente islamico e conservatore Recep Tayyip Erdogan, non basta il 41% dei voti per governare la Turchia. Non da solo, perlomeno. Tantomeno riunendo in una sola carica i poteri di capo dello Stato e di primo ministro. È finito il sogno di grandezza del «Sultano». Sempre che non si sia preparato un piano B.
Dopo una giornata da incubo con allarmi sui brogli che scattavano (spesso a vuoto) in tutto il Paese, le urne sembrano aver restituito una fotografia piuttosto precisa e sincera della volontà dell’elettorato turco: no a una Repubblica presidenziale. «No alla dittatura» ha rafforzato il concetto il leader che schiererà in Parlamento 80 uomini contro i 255 del partito di maggioranza, al potere negli ultimi tredici anni praticamente senza opposizione. Con il suo 13,03%, Demirtas, copresidente con una donna, Figen Yüksekdağ, del partito filocurdo Hdp, rappresenta la svolta. Prudente: «Non abbandonate i seggi fino alla fine — ha raccomandato ai suoi militanti via Twitter —, nessuno vada per strada a festeggiare. Meritate di essere felici, ma non ora». Pacato anche il suo commento post elettorale, all’ora di cena in un ristorante di Istanbul: «La discussione su una Repubblica presidenziale finisce qui, con queste elezioni». Come sarebbe fuori questione qualunque accordo con l’Akp.
Se vorrà governare con un minimo di agio, il primo ministro Ahmet Davutoglu (o chiunque altro la rabbia di Erdogan voglia mettere al suo posto) dovrà cercarsi altri alleati: forse i nazionalisti dell’Mhp, che possono portargli in dote altri 82 seggi. Oppure, con qualche probabilità d’intesa in meno, i kemalisti repubblicani del Chp, che occuperanno ben 133 seggi. Ma non manca chi vaticina elezioni anticipate entro 45 giorni: l’unica arma a disposizione del Partito Giustizia e Sviluppo per tentare di ridistribuire le carte.
Ieri però ha vinto un’altra eterogenea e multietnica coalizione, quella degli esclusi dalla corte neo ottomana di Erdogan: curdi, armeni, aleviti, cristiani, omosessuali, donne, delusi dalla sinistra, reduci di Gezi Park. Ma anche molti intellettuali, accademici, giornalisti, perfino elettori dell’Akp contrari al sistema presidenziale. Uno per uno, erano fastidiosi come moscerini da schiacciare senza difficoltà. Tutti insieme, sono riusciti a sbarrare la strada al presidente.
In politica da otto anni, Demirtas, 42 anni, è un avvocato difensore dei diritti umani che è riuscito a conquistare quasi 2 milioni di voti in più rispetto alle Presidenziali dell’anno scorso, quando ottenne il 9,7%, 3,9 milioni di voti, contro i 5,8 di ieri.
«Non possono fermarci» aveva detto tre giorni fa, quando due ordigni erano esplosi uccidendo tre persone e ferendone un centinaio al suo ultimo comizio a Diyarbakir.
Elisabetta Rosaspina
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