Confesso che un minimo mi ha emozionato la descrizione di Raffaele Sollecito dei momenti angosciosi suoi e dei suoi cari nell'attesa della lettura della sentenza della Cassazione, quella che poi si è rivelata definitiva, con la bocciatura della sentenza di condanna senza rinvio, con il conseguente proscioglimento dall'accusa di omicidio di Meredith Kerker.
Naturalmente chi è convinto della colpevolezza, non cambierà certo idea a dispetto delle parole durissime di biasimo rivolte dalla Suprema Corte ( http://ultimocamerlengo.blogspot.com/2015/09/le-motivazione-dellassoluzione-di.html ) agli inquirenti e investigatori di Perugia e dintorni, loro sì colpevoli di una indagine dettata più dall'urgenza mediatica e forcaiola che dalla doverosa prudenza e accortezza per cercare la verità, con la conseguenza di avere probabimente pregiudicato per sempre il raggiungimento di quest'ultima.
Ma chi vive e segue i processi col giusto principio del dubbio, e quindi il sacrosante timore di un errore che porti alla condanna di un innocente, è lieto dell'esito di questo processo per i due imputati. E in questo caso nemmeno si può dire, almeno allo stato, perché la difesa sta studiando per presentare domanda di revisione, che non vi sia nessun colpevole, in quanto Guede la condanna definitiva l'ha riportata. Certo, nella sentenza è scritto "in concorso", e gli altri rei ipotizzati non sono stati trovati.
Ma magari l'errore è lì : l'aver dovuto per forza ipotizzare che l'uomo, la cui presenza sul luogo del delitto è testimoniata - a differenza degli altri due - da decine di tracce, non abbia agito da solo.
Comunque non è di questo che oggi si tratta, ma dei terribili momenti che si trascorrono in attesa del verdetto.
Se ai processi si pensa come i tifosi allo stadio, bé, è inutile continuare a leggere : non è per voi.
Gli altri invece possono provare a chiudere gli occhi ed immedesimarsi, solo per un attimo...
In un libro la versione di Sollecito «I poliziotti felici per l’assoluzione» Delitto di Perugia -
Otto anni di battaglia giudiziaria, cinque processi fino all’assoluzione
definitiva il 27 marzo scorso: tutto questo è raccontato nel libro «Un passo
fuori dalla notte» scritto da Raffaele Sollecito ed edito da Longanese. È la
storia del processo per l’omicidio di Meredith Kercher vista dagli occhi
dell’imputato. «Un libro necessario. Ognuno dopo averlo letto potrà dire
“questo poteva capitare a me”» dice Giuseppe Strazzeri, direttore editoriale di
Longanesi. Ne riportiamo uno dei passi principali in anteprima. Al termine
dell’arringa i giudici si riunirono finalmente in camera di consiglio. Fu in
quel momento che mio padre annunciò: «Torniamo a Bisceglie». Il tono era di
quelli che non ammettono repliche. Era più saggio aspettare la sentenza tra le
mura della nostra casa che ci avrebbero protetto da tutti i curiosi. E quindi
eccolo ora correre verso casa perché preoccupato che la lettura del dispositivo
avvenisse mentre eravamo ancora per strada. A casa, c’era la mia famiglia
riunita al completo, ma anche i miei amici di sempre. Tutti mi rivolgevano
sguardi carichi d’affetto. Tutti cercavano di darmi coraggio, di mostrarsi
positivi. Ma la verità è che eravamo distrutti, e terrorizzati. I più piccoli
della mia famiglia – mio cugino Raffaele e Simona, la figlia ventunenne della
moglie di mio padre – non riuscivano a mascherare la tensione, e neanche Greta,
che continuava a piangere. Come poi scoprii, mia sorella le aveva detto che
secondo lei questa storia sarebbe finita nel peggiore dei modi, e che lei
doveva cominciare ad arrendersi all’idea. Dopotutto potevo capire il suo
pessimismo: la vita di Vanessa era uscita distrutta da questa storia. Aveva
dovuto lasciare i carabinieri, e aveva perso anche ogni fiducia nel sistema di
cui aveva fatto parte. Lei comunque rimase a Roma, insieme al prof. Milani al
solito presente nei momenti che contano, ad aspettare che finisse la camera di
consiglio. Sarebbe stata lei a darci la notizia, qualunque essa fosse. Quando
l’avvocato Bongiorno – che, come poi mi raccontarono, era nervosissima e
continuava ad andare avanti e indietro con la sigaretta in mano – mi telefonò
per annunciarmi che stavano entrando per ascoltare la sentenza, tutta la finta
sicurezza che i miei parenti avevano indossato per tranquillizzarmi evaporò
all’istante. E si alzò il sipario sulla nostra angoscia: chi assorto sul
divano, chi in un angolo a piangere – mentre io mi sentivo morire dentro. Era
tardissimo ormai, e i minuti sembravano non passare mai. Poi, d’improvviso, il
cellulare di mio padre cominciò a squillare: era Vanessa. Nella stanza il
silenzio si fece ancora più totale. Ecco la verità. Non c’era più spazio per le
illusioni. Ma all’urlo di mia sorella: «Innocente!», tutte le persone che si
erano strette attorno a me cominciarono a gridare dalla gioia, a battere le
mani. Incredulo, mi lasciai sfuggire una risatina dalla bocca dello stomaco,
poi anche io urlai, forte, sempre più forte, mentre papà, Mara e Greta
piangevano dalla gioia e il mio amico Francesco mi afferrava e mi stringeva al
punto da farmi soffocare. Nessuno di noi riusciva più a contenere la felicità.
Non so per quanto tempo vagai da una parte all’altra della casa, ridendo e
facendomi abbracciare da chiunque incontrassi sulla mia strada. E intanto il
telefono non smetteva più di suonare, così come il citofono. C’era moltissima
gente che voleva rivolgermi le sue felicitazioni, esprimermi il proprio
affetto. Perfino i poliziotti che mi avevano pedinato si fecero vivi, dicendo
che erano sempre stati dalla mia parte. Avevano capito che ero un bravo
ragazzo, e adesso erano contenti di come erano andate a finire le cose. E le
dimostrazioni di affetto proseguirono nei giorni successivi. Oltre a trovare la
casella della posta ogni giorno piena di lettere, mi imbattevo di continuo per
la strada con persone che mi fermavano, anche solo per stringermi la mano.
C’era chi addirittura piangeva per la commozione. Ricevetti anche una
telefonata da Amanda. Sapevo che aveva vissuto con angoscia l’attesa della
sentenza, ma adesso era felice, almeno quanto me. In qualche modo, ora, la
nostra storia era davvero finita. Solo noi potevamo sapere quant’era pesante il
fardello che ci eravamo portati addosso per tutti quegli anni. Ma ci rendevamo anche
conto, com’era già avvenuto dopo la prima assoluzione, che, a parte
quell’esperienza, non c’era più nulla che ci unisse. E ci salutammo. Con lo
stesso «Buona fortuna» che ci eravamo augurati il giorno della scarcerazione.
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