giovedì 1 ottobre 2015

MENO MALE CHE DI FRONTE A PUTIN E' CAPITATO OBAMA...

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Magari è il Padreterno che controlla l'alternanza dei capi di USA e Russia. Ve lo immaginate se al posto di un Obama di fronte a Putin si misurasse un Reagan ? Così probabilmente ci fu la mano della Provvidenza se all'epoca del grintoso cow boy alla guida della Casa Bianca, in URSS si affermò, di lì a poco (1985, Reagan era presidente dal 1981), Gorbaciov. 
Crimea, Ucraina, prima ancora Cecenia e Georgia, oggi (veramente da un po', ma ora ci sono le truppe russe sul terreno) Siria. E Obama protesta, ammonisce, cerca di sanzionare ma di fatto subisce l'iniziativa del dirimpettaio. 
TRa poco più di un anno però Obama non sarà più presidente ( e questa NON è una cattiva notizia) ed è facile immaginare che CHIUNQUE gli succederà, sarà meno incerto, in politica estera, di quanto non lo sia stato il primo nero alla Casa Bianca (qualcuno potrebbe infelicemente insinuare che l'esperimento è fallito, laddove il bianchissimo Carter fu imbelle e pusillanime tanto quanto l'attuale "comandante in capo"). 
In campo economico, va detto, sembra che Obama si sia ben comportato : preso il paese in piena crisi Lehman Brothers e subprime, pare che abbia saputo condurre la barca fuori dalla tempesta, con l'aiuto di Bernanke e i trilioni di dollari stampati e lanciati dagli elicotteri. Ovviamente, sono in molti a sostenere che questo tipo di salvataggio in realtà si rivelerà nel tempo fittizio, e questa marea di liquidità a debito prima o poi presenterà il suo catastrofico conto. 
Per intanto però l'economia americana è tornata a crescere, le imprese ad occupare, e wall street ha conosciuto anni felici.
Niente di paragonabile a questo bilancio i risultati in politica estera, dove le scelte sbagliate si sono alternate alle non scelte. 
Sull'Iran c'è poi la scommessa più rischiosa, che intanto ha prodotto come primo risultato di una distanza con Israele mai conosciuta in passato in questi termini. 
Venendo allo scenario siriano, ovvio che il decisionismo di Putin, che ad un certo punto smette di parlare e agisce, fregandosene dell'ONU (fa bene), della comunità internazionale, delle sanzioni che durano per un po' per poi allentarsi ( è dai tempi di Napoleone che gli embarghi e misure similari non funzionano, almeno non con i russi), è quanto di più sideralmente opposto ai dubbi amletici di Obama.
Nè ci voleva la zingara per immaginare che con il pretesto dell'ISIS Putin abbia come obiettivo principale quello di salvaguardare la sopravvivenza di un alleato che comunque gli garantisce posizionamenti strategici sul territorio siriano a cui la Russia non rinuncerà in nessun caso. 
Quindi d'accordo combattere il Califfato, anche perché allo stato è la minaccia più concreta per Assad, essendo ormai logorati i focolai di ribellione "moderata" al regime, ma se di mezzo ci vanno anche gli altri avversari dell'alawuita, a torto o ragione considerati filo occidentali, bé, non è certo un errore.



Quello che Putin non dice 
 


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di Franco Venturini



Benedetto con pari entusiasmo dal Parlamento e dalla Chiesa ortodossa, Putin ha ordinato ai suoi aerei di bombardare forze terroriste in Siria quando all’Onu ancora si discuteva di coalizioni e di transizioni.

L’ uomo è così, come ci ha insegnato l’annessione della Crimea. Ma se il decisionismo di certo non gli manca, il rompicapo siriano dovrebbe suggerirgli maggiore prudenza nel gestire le auspicate convergenze strategiche volte a distruggere i jihadisti dell’Isis.
Una delle prime reazioni, proveniente da Parigi e in parte anche da Washington, dimostra quanto sia sottile il ghiaccio sul quale Obama, Putin e altri si sono apparentemente messi in marcia. È vero, il nemico numero uno sempre evocato tanto dagli occidentali quanto da Mosca è l’Isis.

Ma la guerra civile siriana si combatte a macchia di leopardo, e con l’eccezione dell’atroce battaglia di Aleppo gli spostamenti sul terreno sono continui. La scelta non è delle più facili quando ci si trova a dover distinguere tra i torturatori del Califfato, i qaedisti di Jahbat al-Nusra o decine di altri gruppi minori formati in grande maggioranza da jihadisti che mutano bandiera a seconda delle convenienze territoriali.
E tuttavia, malgrado la natura della guerra siriana che rende facili gli equivoci sui bersagli, le incursioni dei cacciabombardieri russi ci dicono due cose importanti. La prima è che Putin, indirizzando l’attacco contro la regione di Homs, dimostra di temere davvero che il suo alleato Bashar al-Assad possa crollare, e si propone come obiettivo quello di aprirgli un corridoio sicuro che da Damasco passi appunto da Homs e arrivi sulla costa, nella regione di Latakia, dove vive gran parte della minoranza alawita e dove Mosca dispone del porto di Tartus. Prima era un sospetto, ora diventa una certezza. E autorizza a chiedersi se al Cremlino la disgregazione territoriale della Siria non venga già data per inevitabile.
La seconda questione che i bombardamenti sollevano riguarda non tanto il sapere esattamente chi è stato bombardato ieri, ma piuttosto cosa intenda Putin quando si riferisce all’Isis. Su questo potrà forse fare chiarezza la bozza di risoluzione che la Russia ha consegnato al Consiglio di sicurezza, ma intanto ieri è emersa una forte irritazione americana. Il segretario alla difesa Carter si è lamentato del preavviso di soltanto un’ora dato a Washington dal Cremlino, ha chiesto di accelerare le consultazioni militari per evitare incidenti e ha detto che «apparentemente» i russi non hanno colpito posizioni dell’Isis. Il portavoce della Casa Bianca, qualche ora prima, aveva peraltro sostenuto che le consultazioni con la Russia restano una priorità.

 Il punto cruciale non è tanto quello di capire se Putin oltre all’Isis vero e proprio intenda bombardare anche i gruppi di Al Qaeda o altre formazioni jihadiste. Se così fosse in Occidente nessuno avrebbe motivo di storcere il naso, anche se l’eventuale coalizione diverrebbe più complessa. Ma le cose cambierebbero se per «Isis» si intendesse da parte russa tutti coloro che combattono contro Assad, perché questo porterebbe sulla linea del fuoco una parte dei Curdi, ipotetici gruppi filo-occidentali (se qualcosa ne resta), e anche quella trentina di formazioni jihadiste che hanno concluso tregue locali e che sembrano disposte a dialogare.
Su questo Putin deve fare chiarezza, magari nei colloqui che Kerry e il suo collega Lavrov continuano ad avere quasi quotidianamente: si tratta di lottare contro i jihadisti a cominciare dall’Isis, oppure di difendere Assad da chiunque gli si opponga? Nel primo caso il «compromesso» cui ha fatto allusione Obama nel suo discorso all’Onu può diventare possibile concertandosi sulla lotta comune all’Isis e avviando parallelamente una «transizione» che si concluderebbe più avanti con l’uscita di scena di Assad. Nel secondo caso, invece, ogni vera intesa appare impossibile e lo scontro su Assad tra Mosca e Washington si sommerebbe a quello sempre latente tra Iran e Arabia Saudita, a quello tra Turchia e Siria, insomma allo scontro generale tra sciiti e sunniti.
E la Siria in tal caso continuerebbe a essere un teatro di massacri e di fughe in massa verso le sponde europee, un trampolino verso la frammentazione di aree sempre più ampie del Medio Oriente (si pensi all’Iraq), e una garanzia di sopravvivenza per l’Isis alla faccia delle certezze di Obama.

Non bisogna giocare con la proposta già fragile di coalizzarsi contro un nemico comune, perché si rischia di distruggerla. Bisogna piuttosto riflettere alla creazione di corridoi e di aree protette, alla instaurazione di no-fly zones che fermino i bombardamenti indiscriminati con i «barili della morte» di Assad, alla ricerca (assai ardua, topo tanto sangue) di forme di convivenza tra la maggioranza sunnita (il 70 per cento) e la minoranza alawita che esprime il regime e, anche, a bombardamenti efficaci. Ma dopo che ognuno avrà mostrato le sue carte.

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