domenica 15 novembre 2015

EPPURE IL NEMICO E' SEMPRE EBREO. L'IPOCRISIA SENZA FONDA DI NOI PAVIDI EUROPEI

 

Oriana Fallaci aveva ragione, i suoi detrattori torto, ma c'è gente che non l'ammetterà mai, nemmeno  davanti all'eccidio di Parigi.
Gli islamisti, per gran parte, nei loro paesi, sono diventati - non è sempre stato così nel passato - integralisti e intolleranti nei confronti delle altre etnie e credi religiosi. La punta dell'iceberg è naturalmente il califfato, ma non avviene solo lì.
Questo mentre da noi presidi e insegnanti dementi aboliscono il presepe, e cancellano visite culturali a mostre di grandissimi maestri della pittura perché i dipinti rappresentano il Sacro della religione cristiana, e i bambini di fede musulmana potrebbero sentirsi offesi, emarginati, non so bene cosa...
E naturalmente, a dispetto di tutto quanto in certi paesi accade, il paese cattivo per eccellenza, quello da biasimare sempre e comunque, quando non demonizzare, resta Israele. L'unico, in quei territori, dove i valori della democrazia e dei diritti consueti nelle società occidentali hanno un senso .
Eppure, è nei confronti di Israele che c'inventiamo il bollino di provenienza per favorire il boicottaggio di quei cattivoni degli "ebreacci", come direbbe quel poveraccio di Tavecchio.
Biasimano in modo duro questa squallida ipocrisia europea Mattia Feltri su La Stampa e Davide Giacalone su Libero.
Li riporto entrambi.
Leggeteli, tra una marsigliese e l'altra.





Se il bollino vale solo per Israele

Mattia Feltri

Risultati immagini per IL BOLLINO SUI PRODOTTI DI ISRAELE

Ci sono pompelmi che vengono da Israele e pompelmi che vengono dalle colonie. Per noi sarà facile distinguere perché, per decisione dell’Unione europea, i pompelmi della seconda specie saranno di conseguenza etichettati. Chi intendesse danneggiare economicamente le imprese dei territori occupati avrà dunque buon gioco, anche se è difficile immaginare quale sarà la portata di un eventuale boicottaggio, spesso sollecitato dai nemici delle politiche sioniste su tutti i prodotti israeliani. 

Semmai, come è stato segnalato, fa un pochino impressione che il bollino di democratica qualità venga applicato proprio alla vigilia del viaggio europeo di Hassan Rohani, presidente iraniano che sarà domani a Roma. 

Duemila esecuzioni di pena di morte dall’inizio dell’anno non ci impediscono di acquistare caviale iraniano nelle migliori gastronomie, se abbiamo i soldi, o i più economici pistacchi, esposti su tutti gli scaffali di supermercato. I rapporti economici dell’Occidente con Teheran sono fitti, a prescindere dai diritti umani: come ha scritto il «Wall Street Journal», il controllo e le restrizioni su Internet vengono bene grazie alla collaborazione della tedesca Siemens e della finlandese Nokia. L’Italia, poi, importa dall’Iran il petrolio e in fatto di energie ci tocca o ci è toccato di comprarne dalle più attive dittature: dalla Libia di Gheddafi, dall’Arabia Saudita dove, per i pochi che non lo sapessero, le donne vengono lapidate con pietre di dimensioni stabilite per legge, che non siano così piccole da fare poco male né così grosse da chiudere la pratica troppo rapidamente. E del resto non si è mai sentito uno smettere di essere tifoso del Milan perché è sponsorizzato dalla Fly Emirates: lì gli impulsi di giustizia s’annacquano. 

La contesa sui territori occupati da Israele dopo la guerra subita e vinta nel 1967 rimane per gli europei questione più stringente. Ogni santa volta che dall’Italia parte una delegazione diretta in Cina si aprono dibatti infiniti e infinitamente sterili su quanto sia eticamente tollerabile concludere affari con un regime liberticida. E non è il caso di elencare, nemmeno sommariamente, gli abiti, i giocattoli, le chincaglierie, i milioni di oggetti Made in China entrati nella nostra economia e nella nostra vita quotidiana. Eppure parlare di rapporti fra nazioni, fra democrazie e dittature, di questioni che corrono lungo i confini vale poco o niente in un mondo in cui la certificazione di provenienza dei prodotti indica soltanto l’ultimo di numerosi passaggi, di Paese in Paese, o di continente in continente. E piuttosto, ogni tanto, salta fuori la scandalosa notizia di multinazionali che sfruttano i bambini o devastano l’ambiente e dopo un giro di reportage e di commenti la cosa finisce lì. Non esiste nemmeno un sito o un elenco ufficiale (se c’è, è ben occultato) di multinazionali irrispettose delle più immediate regole di umana convivenza: esistono siti credibili (ma non affidabilissimi) in cui i marchi più familiari, di cui abbiamo la memoria e le dispense piene, sono accusati di sottopagare operai per orari impossibili, di reprimere i diritti sindacali, di sostenere regimi tirannici, di appoggiarsi a paradisi fiscali. 
Il problema è: come si combattono dittatori e multinazionali? Un po’ più difficilmente che i pompelmi del Golan. 




Infilzando David

Davide Giacalone 

 
Ci sono diversi modi per infilzare la stella di David. Chi ha accoltellato un signore ebreo, a Milano, nel mentre deambulava in normale serenità, può rivelarsi un fanatico fondamentalista o un cretino, in ogni caso che sia identificato e punito. Il guaio vero è non capire fino a che punto quella lama ci ha trafitto tutti, fino a che punto la violenza perbenino di chi detesta Israele è una minaccia per noi tutti. Il guaio più grosso sta nel credere che, per occidentali satolli e smorfiosi, Israele possa essere un problema, uno Stato da difendere nonostante non se ne condivida la politica, laddove, all’opposto, è la sola cosa che possiamo opporre alla rassegnazione di chi non sa come gestire la propria identità. Ammesso che la conosca.
L’accoltellatore vada in galera. Il ferito si rimetta e conservi dell’Italia un ricordo non ristretto a quel pessimo momento.
Però si chiarisca a che il marchio ai prodotti israeliani, destinato a distinguere quelli lavorati oltre la linea verde del 1967 (orrendamente e grossolanamente indicati come “territori occupati”), se lo devono appiccicare sulla fronte. In modo che, guardandosi allo specchio, non sfugga loro la bassezza cui si sono prestati.
Quel marchio è un grossolano errore di politica estera, perché dovrà essere riprodotto decine e decine di volte, per altri territori contesi, con il risultato di rendere i prodotti di consumo strumenti di guerra. L’idea del marchio può essere venuta solo a chi non sa nulla di storia e non ha alcuna cognizione di come sia combinato il mondo. Oltre a ciò, che largamente prevale, ci vuole una dose gigantesca di scemenza per accostare l’idea di “marchio” a Israele, senza che si accendano tutti i possibili allarmi. Una roba simile poteva essere fatta solo dopo averla concordata con Israele. In via autonoma merita una pernacchia continentale. Lo strafalcione è stato pubblico, pubblica deve essere la marcia indietro.
Riservatamente, invece, il governo approfitti della visita del presidente iraniano, per chiarire un paio di cose. E’ sciocco supporre che si possano avere rapporti diplomatici e commerciali solo con i democratici e i tolleranti, naturalmente praticanti la non-violenza. Messa così non si rimane neanche da soli. Nel tessere rapporti internazionali (possibilmente avendo le idee chiare sui nostri interessi geostrategici) si accetta il dialogo con chi è diverso. La corsa agli affari, del resto, è legittima, ma quando è ben costruita porta con sé, dopo se non subito, una crescita della ricchezza diffusa e della libertà (le dittature producono miseria). Riservatamente, però, al presidente Rohani si dica: a. il mondo occidentale fa finta di credere che l’accordo sul nucleare sia reale e sarà rispettato, speriamo vada così, in caso contrario il rientro dell’Iran nel consesso diplomatico sarà attraverso una porta girevole, talché sarete fuori in un attimo; b. la prova che volete uscire dall’isolamento, ma non per aggredire, la vogliamo su Israele: avevate detto che andava cancellato dalla carta geografica, ora trovate il modo di fissare la sicurezza di quello Stato fra le condizioni per dialogare con noi. Nessuno chiede di portarli dal barbitonsore, ma loro non credano di farci un baffo.
Perché Israele è così importante? Per mille ragioni, ma una mi pare sfuggire, nonostante l’evidenza. Ed è clamoroso. Una scuola fiorentina non va alla mostra “Bellezza divina”, per non offendere la sensibilità dei non cristiani, datosi che ci sono quadri con croci e altre simbologie. Vabbé, non esageriamola, diciamo che fra preside e insegnanti c’è poca gente, da quelle parti, con la vocazione alla cultura. Ma il problema non è mica solo lì. Allora sarà bene ricordare a noi stessi che il cristianesimo, frutto della predicazione di Gesù, non crea un problema all’islam (che è successivo), ma al mondo ebraico (i cui testi sacri, in gran parte gli stessi del vecchio testamento, preesistono). Se Gesù è il Cristo il popolo eletto non esiste più. Mentre nel testo sacro dell’islam quella figura è assorbita, sebbene declassata a “profeta”, come anche quella della madre.
Ma allora, perché prima non ci si è mai posti il problema del rispetto degli ebrei e della loro sensibilità? Perché non lo si è fatto nei confronti dei non credenti? 
 La risposta è fondamentale: perché la civiltà impone il rispetto delle diversità, senza rinunciare alle identità. I due principi non sono conciliabili sono allorquando credo sia mio diritto e dovere annientarti. La stella di David è nella nostra civiltà, proprio perché avevamo imparato a tenere separate le fedi dalla convivenza, la religione dallo Stato laico.
Se questa roba la marchiamo, trascuriamo, trattiamo con fastidio, non è Israele che avviamo alla fine, ma noi stessi.

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