domenica 15 novembre 2015

NON E' CANTANDO LA MARSIGLIESE NELLE PIAZZE CHE VINCEREMO QUESTA GUERRA

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La gente canta la marsigliese, sui social network è un tripudio di tricolori francesi, di scritte solidali con la Francia, di "Je suis parisien" , proprio come non tanto tempo fa eravamo tutti Charlie ( salvo smarcarsi col passare dei giorni), mentre i fiocchi neri di cordoglio si sprecano ovunque.
Il presidente Hollande parla di atto di guerra, ma non è cantando allons enfants de la patrie che la vinceremo questa guerra.
Magari servirà a poco, e succederà come in Iraq o in Afghanistan, però proviamo a farla finita con l'atroce novità di un terrorismo che si fa stato. Questo è l' IS, che orgogliosamente rivendica le centinaia di vittime (quasi 500 persone, tra morti e feriti) di Parigi.
E questo deve essere spazzato via, proprio perché si può, perché ha città occupate (Mossul, Raqqa, Sirte), territori sotto controllo, un "Califfo". Ecco, intanto tagliamo la testa al serpente.
Ricrescerà in altri modi? Pazienza. Intanto cominciamo da qui.

Di seguito, l'articolo di Sofri su Repubblica. Il bravo scrittore evidenzia alcune cose su cui riflettere, e la prima è che stavolta non sono stati colpiti posti di "trincea", come potevano essere la redazione di Charlie Hebdo, o il market kosher. No, quesa volta sono stati attaccati un ristorante, un concerto, uno stadio.
Insomma, nessuno è al sicuro.
Nemmeno quelli che nei salotti fanno i distinguo tipo Boldrini, o quei presidi e maestri che annullano la visita ad una mostra per la presenza di troppi capolavori a sfondo sacro cristiano, per non ferire la sensibilità dei bambini musulmani...
Quando arriveranno, i boia assassini al grido di Allah Akbar, non faranno distinzioni.



Liberté liberté chérie

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Quando si piange e ci si torce le mani e ci si vergogna della propria impotenza, è il momento di fare qualcosa. Qualcosa, qualsiasi cosa, non pretende nemmeno di misurarsi con la violenza cui si assiste. Vale un po’ per gli altri, per le vittime, per quelli che sono feriti, per quelli che scappano e sono spaventati, e un po’ per sé. Mai come in questa circostanza è vero che “avremmo potuto trovarci al loro posto”. La redazione di Charlie era ancora una trincea, seppure involontaria, il mercato kosher era un bersaglio dell’infamia antisemita: qui è la strada, il ristorante, il concerto, lo stadio, la Parigi dei parigini e di tutti, le nostre scolaresche, i nostri parenti. Ci fanno guerra, si dice, mentre commemoriamo la Grande Guerra, il soldato con l’elmetto che tiene alta la bandiera e sorregge il compagno esanime in ogni piazza di paese. Che monumento faremo a questi caduti, falcidiati dentro una sala di metal rock, aggrappati ai cornicioni –appena due piani- in ricordo delle Torri Gemelle, trucidati a una tavola di ristorante o a un angolo di boulevard? Ieri era sconsigliato ogni assembramento, e in tanti sono andati alla République: gli ordini della prefettura sono sensati, ma c’è un sentimento che può farli superare. Le porte di casa aperte a chi nella notte avesse avuto paura e cercato un riparo, poche o molte che fossero, volevano risarcire la grande città che si chiudeva a doppia mandata. I tassametri staccati, spontaneo servizio civile come sotto un bombardamento. Le code di cittadini che sono andati a donare il sangue, a risarcire il tanto sangue versato. I fiori, i pensieri e i disegni affidati a foglietti, le candele. Ieri Parigi era la ville lumiére per le candele. Je suis parisien, Io non ho paura. Si vuole fare qualcosa per gli altri, gli altri farebbero qualcosa per noi.Ieri era anche il giorno dopo delle dichiarazioni delle autorità, ovvie, a volte sincere. Le autorità possono avere un cuore, quando gli avvenimenti spezzano il cuore. O no. Bashar al Assad vorrebbe dire chiaro e tondo “Ben vi sta” e non può, ma lo lascia intendere, e dice “Noi stiamo vivendo così da cinque anni”: lui sta facendo vivere così e molto più orribilmente di così il “suo” popolo da cinque anni. I magnanimi finanziatori del terrorismo jihadista deplorano l’oltraggio all’umanità consumato in quella Parigi di cui sono prestigiosi acquirenti. Il presidente turco, Recep Tayyp Erdogan, esecra “il terrorismo, che noi conosciamo molto bene”, frase almeno sibillina. Le persone vanno in piazza Farnese, depongono fiori, inalberano il tricolore transalpino. Un giovane italiano-tedesco va con la bicicletta e un pianoforte a traino a suonare “Imagine” nei luoghi della ferocia: You may say I’m a dreamer, già. Ieri di fronte al Bataclan. Al Metropolitan Opera House a New York hanno suonato e cantato la Marsigliese, e distribuito il testo completo. Égorger nos fils et nos compagnes –a sgozzare i nostri figli e le nostre compagne. Anche sui campi di calcio italiani, dove ieri toccava alla serie B, si è cantata la Marsigliese. Liberté, liberté chérie. Forse l’episodio più consolante nella costernazione di venerdì notte era stato quello dello Stade de France. Spettatori e calciatori sono tenuti dentro per ragioni di sicurezza. Anche più tardi, quando potrebbero andare, i blu della nazionale francese scelgono di restare per non lasciare gli avversari tedeschi, fino all’alba. Quando le porte si aprono, alcuni spettatori sgattaiolano via, ma molti escono con calma e ordine, cantando la Marsigliese. Questo è il bell’episodio. Vi ricordate il film, “Fuga per la vittoria”: i nostri, prigionieri dei nazisti, scelgono di giocarla fino alla fine rinunciando all’evasione preparata. Quando il nostro portiere -è il povero Stallone- si prepara a parare il rigore decisivo dell’ultimo minuto, la folla dei parigini intona la Marsigliese: lui para, la folla travolge tedeschi e recinti, e si trascina via i giocatori alleati. La Marsigliese non è un inno fra gli altri, è, per così dire, il prototipo di tutti gli inni nazionali. La si può ricantare prendendola sul serio, restituendo alle vecchie parole un senso originario. Era successo di nuovo alla folla parigina meravigliosa per Charlie. Potrebbe succedere anche a noi –Dio ce ne scampi- con l’inno di Mameli, di ricantarlo e passar sopra alla retorica e ricordarci che cosa volle dire nel 1847 o nel 1945. Scrivemmo, dopo Charlie: “Tuttavia una manifestazione così non può ripetersi all’indomani del prossimo attentato…”. Eppure ancora ieri il canto della Marsigliese è stato il più sentito segno di solidarietà con le vittime, con la Francia, con il nostro modo di vita sfidato. Mentre guardavo e ascoltavo mi chiedevo se le parole prese sul serio questa volta non costringessero la folla fiera e calma, gente che era andata a vedere una partita amichevole di pallone, a fermarsi su quell’ “Aux armes, citoyens!”. Poco lontano da lì, un’altra folla di 1500 persone inermi, giovanissimi e giovani per lo più, veniva trucidata da un piccolo manipolo di assassini, bravi alle armi e ubriachi di un Dio alla loro misura, come si macella un gregge di agnelli. Nessuno può imputare alla folla di non aver accennato (salvo che sia avvenuto, e speriamo di venirlo a sapere) un gesto di resistenza, di reazione a quei boia: era successo su un treno, ma l’aspirante boia là era uno sciagurato. Forse però dovremmo ripensare ai lunghi decenni in cui abbiamo tollerato che si attribuisse al popolo ebraico una rassegnazione a lasciarsi macellare come un gregge di agnelli. Oltretutto dimenticando il ghetto di Varsavia, e una miriade di ribellioni personali e senza speranza.Ho una postilla che qui suonerà tragicomica. Nel Secondo Impero francese, a metà dell’Ottocento, la Marsigliese era interdetta, e a fare da inno nazionale era un canto composto (o usurpato) da Ortensia de Beauharnais sul testo di un Alexandre Laborde (1807). Si intitolava “Partant pour la Syrie”…

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