mercoledì 11 novembre 2015

GLI ITALIANI COLPEVOLISTI ? E' CHE HANNO PERSO L'INNOCENZA. LA PROPRIA.

Risultati immagini per perdita dell'innocenza

L'editoriale di Michele Ainis pubblicato oggi sul Corriere della Sera, entra di diritto nella non folta schiera degli "imperdibili" del Camerlengo. Non sono tanti, appena 33, con questo, in 4 anni e mezzo e quasi 5000 post.
Un articolo da copiare, conservare ma soprattutto divulgare, nella sua amara ironia alla ricerca del perché le sentenze assolutorie si portano sempre appresso un però, mentre i colpevolisti sono sempre graniticamente convinti del loro pregiudizio, a dispetto di decisioni giudiziarie a loro contrarie.
E' vero, di errori giudiziari ce ne sono tanti (troppi), però, come nota opportunamente Ainis, sono più i dannati (cioè gli innocenti condannati ingiustamente) che i salvati ( i colpevoli che l'hanno sfangata). E questo senza contare che una società civile degna di questo nome dovrebbe tollerare il rischio di non riuscire a perseguire un colpevole, piuttosto che colpire un innocente. E' per questo che nei sistemi giudiziari più evoluti vige il principio del ragionevole dubbio.
In teoria anche da noi è così, ma poi in realtà vediamo come sia non solo applicato con grande reticenza (addirittura, nelle fasi preliminari dei processi, vige di fatto l'esatto opposto, di qui l'abuso osceno della custodia cautelare), ma apertamente avversato dalla maggior parte della gente.
Senza parlare della damnatio che perseguita gli imputati anche dopo assolti (quindi figuriamoci i condannati, che pure hanno finito di scontare la pena e quindi, teoricamente, pagato il loro debito con la società).
Ainis si chiede perché avvenga questo, perché la nostra pancia non fa che gridare al colpevole ?
La risposta è fulminante.
Perché abbiamo perso l'innocenza.
La NOSTRA.





Assolti? c’è sempre un però

di Michele Ainis

Ego te absolvo , sussurra il prete dietro la grata del confessionale. Ma se lo dice il giudice allora no, non vale. In Italia ogni assoluzione è un’opinione, per definizione opinabile o fallace; e d’altronde ogni processo è già una pena, talvolta più lunga d’un ergastolo. Ultimo caso: Calogero Mannino. L’ex ministro democristiano arrestato nel 1995 per concorso esterno in associazione mafiosa, prosciolto 25 anni più tardi dalla Cassazione, dopo una giostra d’appelli e contrappelli, dopo 22 mesi di detenzione, dopo la gogna e la vergogna. E adesso assolto di nuovo in primo grado nel processo sulla trattativa Stato-mafia.
Reazioni: sì, però... C’è sempre un però, c’è sempre una virgola della sentenza d’assoluzione che si lascia interpretare come mezza condanna (in questo caso l’insufficienza delle prove), o magari c’è una dichiarazione troppo esultante del prosciolto, un suo tratto somatico tal quale la smorfia di Riina, una corrente d’antipatia che nessun verdetto giudiziario riuscirà mai a sedare. Mannino sarà anche innocente, però non esageri, ha detto l’ex pm Antonio Ingroia in un’intervista a Libero . Lui invece esagera, come fanno per mestiere i romanzieri; e infatti ci ha promesso in dono un romanzo col quale svelerà le intercettazioni di Napolitano. Peccato che pure stavolta ci sia di mezzo una sentenza, oltretutto firmata dal giudice più alto. Giacché nel 2013 la Corte costituzionale — per tutelare la riservatezza del capo dello Stato — impose l’immediata distruzione dei nastri registrati, e dunque i nastri sono stati inceneriti, anche se nessuno può incenerire la memoria di chi li ascoltò a suo tempo. Come Ingroia, per l’appunto.

Risultato: la Consulta ha sancito l’innocenza «istituzionale» dell’ex presidente, l’ex magistrato ne dichiara la colpa. Risultato bis: anche in questo caso non conta il giudizio, conta il pregiudizio.
Potremmo aggiungere molte altre figurine a quest’album processuale. Potremmo rievocare le maestre di Rignano: nel 2006 imputate di violenza sessuale sui bambini, assolte per due volte in tribunale, però sempre colpevoli secondo i genitori, tanto che hanno smesso d’insegnare. O altrimenti potremmo citare il caso di Raffaele Sollecito: assolto anche lui per il delitto di Perugia, dopo un ping pong giudiziario di 8 anni; qualche giorno fa vince un bando della Regione Puglia per creare una start up , e s’alzano in coro gli indignati.
Insomma, alle nostre latitudini l’unica prova certa è quella che ti spedisce in galera, non la prova d’innocenza.
E allora la domanda è una soltanto: perché? Quale virus intestinale ci brucia nello stomaco, trasformandoci in un popolo incredulo e inclemente? Chissà, forse siamo colpevolisti perché abbiamo perso l’innocenza: la nostra, non la loro.
Perché siamo vecchi e sfiduciati, dunque non crediamo più nei giudici come nei partiti, come nei sindacati, come nelle chiese. Perché la giustizia ci ha deluso, e in effetti la storia è costellata d’errori giudiziari.
Però sono più i dannati dei salvati: Dreyfus (Francia, 1894), Sacco e Vanzetti (Usa, 1927), Girolimoni (sempre nel 1927, ma in Italia), Valpreda (1969), Tortora (1983). Altrettante vittime innocenti d’uno strabismo processuale, nonostante il doppio grado di giudizio, nonostante il riesame in Cassazione. Domanda: ma se una sentenza può sbagliare, perché a un certo punto diventa inappellabile? Risposta: perché la verità assoluta non è di questo mondo, perché dobbiamo contentarci di verità parziali, convenzionali. E perché il diritto tende alla certezza, non alla comprensione filosofica. Quando ci rifiutiamo di prenderlo sul serio, quando respingiamo i suoi verdetti, la nostra insicurezza diventa ancora più acuta.

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