Chi legge il camerlengo conosce l' infinita stima che nutro nei confronti di Luca Ricolfi, saggista, professore universitario di materie sociali e statistiche, apprezzato analista su importanti quotidiani (attualmente, il Sole 24 Ore) .
Tra i tanti opinionisti letti e apprezzati seguiti anche in funzione del blog (un lungo elenco che comprende, tra gli altri, Panebianco, Giacalone, Ainis, Orsina, Galli della Loggia, Ostellino, Toscano, Fubini, Taino, Fugnoli, Alesina e Giavazzi, Polito, Battista, Facci ...) Ricolfi è sicuramente sul podio, forse, in questo momento, proprio al primo posto.
Lo premetto nel presentare il post di oggi che riporta un suo articolo recente in materia di tasse e prima casa, dove lodevolmente, a mio avviso, Ricolfi ammette di aver mutato idea (in genere non lo fa quasi nessuno, e quando accade, fanno finta di nulla !) sulla materia. Non di 180 gradi : tuttora pensa che la riduzione delle tasse più utile riguardi Ires e Irap, vale a dire quelle che gravano sulle imprese, ostacolando la crescita e l'occupazione, però si scosta dai biasimatori dei tagli sulle tasse sulla casa, l' "inutile favore ai ricchi e/o benestanti".
E spiega perché.
Buona Lettura
Prima casa, quasi un atto dovuto abolire la tassa
La soppressione per tutti (o quasi tutti) della tassa sulla
prima casa non è la misura più importante della Legge di stabilità. Il suo
peso, infatti, è dell’ordine di 3 miliardi e mezzo, poco più del 10% di una
manovra che finirà per assestarsi sui 30 miliardi. E tuttavia il valore
simbolico dell’abolizione della tassa più odiata dagli italiani è molto forte.
Renzi si appresta a disfare quel che fecero Prodi e Monti, e a rifare quel che
fece Berlusconi. Ce n’è abbastanza per sollevare un vespaio, almeno a livello
politico.
Le obiezioni che si sentono sollevare contro la decisione di Renzi sono almeno
cinque.
1. L’abolizione della tassa è una misura demagogica, concepita al solo scopo di aumentare il consenso al governo e al premier.
2. La misura è sciagurata perché i beni immobili sono fra le poche cose che non si possono nascondere al fisco.
3. La misura è iniqua perché i ceti medi ne beneficeranno più dei ceti bassi.
4. L’abolizione della tassa sulla casa, nella misura in cui toglie gettito ai comuni, è un passo indietro sulla strada del federalismo.
5. Le tasse sulla casa sono basse in Italia, e comunque sono fra le meno dannose ai fini della crescita.
1. L’abolizione della tassa è una misura demagogica, concepita al solo scopo di aumentare il consenso al governo e al premier.
2. La misura è sciagurata perché i beni immobili sono fra le poche cose che non si possono nascondere al fisco.
3. La misura è iniqua perché i ceti medi ne beneficeranno più dei ceti bassi.
4. L’abolizione della tassa sulla casa, nella misura in cui toglie gettito ai comuni, è un passo indietro sulla strada del federalismo.
5. Le tasse sulla casa sono basse in Italia, e comunque sono fra le meno dannose ai fini della crescita.
Le prime quattro obiezioni sono piuttosto deboli. La prima è
un non sequitur: il fatto che una misura porti consenso al governo che la
propone non prova che sia una cattiva misura. Gli stessi che ora si
scandalizzano della demagogica (e poco costosa) abolizione della tassa sulla
prima casa sono i medesimi che non si scandalizzavano per niente
dell’altrettanto demagogico (e ben più costoso) bonus da 80 euro.
La seconda obiezione, secondo cui i beni immobili non si riescono a nascondere
al fisco, è smentita da un recente studio del ministero dell’Economia, secondo
cui l’evasione Imu sfiora il 30%, una percentuale non certo inferiore a quella
delle altre principali tasse. La tesi dell’iniquità non è del tutto infondata,
ma dimentica un particolare cruciale: le imposte sulla casa sono già
ultra-inique così, perché i valori catastali sono sganciati da quelli di
mercato, e spesso lo sono proprio a favore dei ceti medio-alti, con punte
clamorose in regioni come la
Liguria.
Pensar e di usare le imposte sulla casa a fini redistributivi
prima di aver attuato la riforma del catasto (una riforma che viene rimandata
da decenni, e che pochi mesi fa ha subito l’ennesimo rinvio) significa non
sapere in che Paese viviamo.
Pensar
L’obiezione federalista (così si torna indietro sulla strada
del federalismo fiscale) è invece più che giusta, ma un tantino fuori tempo. Il
federalismo è stato ampiamente abbandonato almeno dal 5 maggio 2009, quando il
Parlamento votò una legge (la
Legge 42) che palesemente non poteva funzionare, e infatti
non funzionò. Gli ultimi tre governi (Monti-Letta-Renzi) sono stati i meno
federalisti della seconda Repubblica, ma hanno avuto il merito di deporre ogni
ipocrisia: il federalismo è morto (lo dico con rammarico), ma almeno nessun
governo finge più di volerlo realizzare.
Devo dire che anch’io, fino a qualche anno fa (prima del
governo Monti), ero persuaso della bontà di questa linea di ragionamento. Ora
non lo sono più, e anzi mi sto convincendo che abbiano ragione i critici e non
i difensori delle imposte immobiliari, almeno finché parliamo dell’Italia e dei
suoi problemi.
Che cosa mi ha fatto cambiare idea? Un po’ ho cambiato idea
perché l’evidenza scientifica a favore della dottrina europea è piuttosto
robusta per quanto riguarda la dannosità delle imposte sui profitti, ma è
tutt’altro che solida e concorde per quanto riguarda il resto delle tasse, e
soprattutto non è in condizione di fare predizioni affidabili su ogni singolo
Paese, con le sue peculiarità strutturali e istituzionali.
Ma la vera ragione
che mi ha fatto cambiare idea è stato il governo Monti, o meglio l’osservazione
dei cambiamenti che le misure del governo Monti hanno provocato, o contribuito
a provocare. Nel breve giro di tre anni, fra il 2012 e il 2015, gli italiani
hanno perso qualcosa come 1000-1500 miliardi per il crollo dei prezzi delle
abitazioni, e l’edilizia ha bruciato mezzo milione di posti di lavoro, pari a
circa un quarto dell'occupazione totale del settore. Un vero e proprio shock
patrimoniale per le famiglie, un autentico infarto per il settore delle
costruzioni.
Pensare che, in tale vicenda, la triplicazione delle imposte sulla
casa non abbia avuto alcun ruolo, o ne abbia avuto uno trascurabile, mi pare
quantomeno azzardato. Tasse più alte significano rendimenti più bassi, che solo
prezzi più bassi degli immobili possono compensare. Ma prezzi più bassi delle
case implicano costi di produzione al metro quadro pericolosamente vicini al
prezzo di vendita, con conseguenti contrazioni dei margini delle imprese, dei
livelli di attività, dell’occupazione.
Ma non è tutto. Il crollo del valore del patrimonio
immobiliare ci ha traghettati tutti da un mondo nel quale avere una casa era
fonte di sicurezza a un mondo nel quale avere una casa è fonte di incertezza,
preoccupazione, qualche volta angoscia. Finché il valore delle case, anche
lentamente, tendeva ad aumentare, si poteva pensare che le spese di riparazione
e mantenimento, le tasse sulla proprietà, le tasse sugli affitti fossero in
qualche misura sterilizzate dall’apprezzamento del valore dell’immobile. Ora
non più: esse si vanno a cumulare al trend di deprezzamento degli immobili,
innescando e accentuando uno stato psicologico di insicurezza. Si potrebbe
pensare che tale senso di insicurezza sia un semplice stato d’animo, una sorta
di lato sentimentale della crisi. Purtroppo non è così. Il valore percepito del
proprio patrimonio è una delle determinanti chiave della propensione al consumo
e all’indebitamento (si chiama effetto ricchezza, o “effetto Pigou”). Se, in
questi anni, gli italiani sono divenuti prudentissimi nelle loro decisioni di
spesa, con effetti disastrosi sulla domanda interna, è anche perché non hanno
più sentito, su di sé, l’ala protettrice dei loro patrimoni famigliari, piccoli
e grandi, spesso frutto del lavoro di generazioni. E l’entità di questa
débâcle, se ci basiamo sui coefficienti stimati nella letteratura
specialistica, è tutt’altro che marginale: almeno 20 miliardi all’anno di
minori consumi, ossia il doppio del bonus da 80 euro, e il quadruplo
dell’incremento dei consumi che si suppone il bonus possa aver provocato.
Naturalmente, non penso che restituire alle famiglie 3,5 miliardi di imposte
sulla casa, appena un quarto del maltolto, possa riportare le lancette
dell’orologio a quattro anni fa. Né penso che togliere “la tassa” basterà a
rilanciare l’edilizia, o a riportare l’antica tranquillità alle famiglie.
E
tuttavia, dopo anni di ingordigia fiscale, un segnale di moderazione e di
astinenza da parte dello Stato ci voleva.
È un tassello, solo un primo
tassello, ma va a rimarginare una ferita che è fra le più profonde che la crisi
ha aperto nel tessuto economico-sociale del Paese.
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