giovedì 3 dicembre 2015

SPENDING REVIEW E' PAROLA INGLESE. SARA' PER QUESTO CHE IN GB SI PUO' FARE (E DA NOI NO ) ?

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L'idea di Renzino di abbassare le tasse è buona e sana, ancorché poi non sembrino felicissime, dovendo purtroppo selezionare le aree su cui indirizzarsi (sarebbe bello farlo in maniera generale ed estesa, ma pare chimerico), le scelte fatte. Come osservava Panebianco, è comunque una importante rottura con il mantra della vecchia sinistra "tassa e spendi".
Peccato che sul campo della cd. spending review, volgarmente e semplicemente i tagli sulla spesa pubblica, continuiamo ad essere clamorosamente deficitari.
E forse un certo modo brusco (rozzo ?) di Renzi non è estraneo al fatto che mentre i predecessori di Cottarelli e Perotti se ne siano andati in punta di piedi, gli ultimi due "commissari" assegnati all'impervio compito di vedere come operare in quel nevralgico settore si siano invece dimessi.
Però, porta socchiusa o sbattuta, cambiando l'ordine dei fattori il risultato non cambia : il partito assolutamente trasversale della spesa pubblica resiste imperterrito, il debito pubblico italiano non flette di una virgola (e questo nonostante i risparmi dovuti a Santo Draghi sugli interessi, a quelli sulle materie prime...) e tra le tante rivoluzioni quantomeno annunciate dal Putto di Palazzo Chigi, questa invece nemmeno è tra i titoli di coda.
Eppure, da altre parti pare che si possa almeno provarci.
Parliamo della Gran Bretagna, che Alesina e Giavazzi additano come esempio nell'interessante editoriale comparso sul Corsera.
Da leggere, e poi prendersi un maalox per il rosicamento. 




 La lezione inglese sulla spesa


di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi


Negli ultimi anni abbiamo avuto quattro commissari per la spending review : o si sono ritirati in silenzio, come Enrico Bondi e Piero Giarda, oppure si sono dimessi, come Carlo Cottarelli e Roberto Perotti.

Tutto questo lavoro ha prodotto pressoché nulla, non per colpa dei commissari ma per la scarsa collaborazione che essi hanno ottenuto dagli stessi politici che li avevano nominati. Il caso più recente sono i tagli che il ministero per lo Sviluppo economico aveva proposto, superando mille resistenze interne, e che il ministero dell’Economia ha ignorato, escludendoli dalla legge di Stabilità. In Gran Bretagna il cancelliere dello Scacchiere, George Osborne, ha presentato una settimana fa la sua spending review , la seconda dopo quella annunciata nel 2010, con i conservatori di nuovo al governo. La lettura del discorso di Osborne in Parlamento consente un confronto illuminante con l’Italia. Prima di tutto, che si sia d’accordo o meno con Osborne, la sua spending review è chiarissima, piena di numeri, sintetica, comprensibile e disegna un piano pluriennale che si estende fino al 2020 cosicché gli inglesi sappiano che cosa aspettarsi nei prossimi anni. Secondo: Osborne non si siede sugli allori di una economia che ha ricominciato a crescere (+2,5% quest’anno, secondo le previsioni dell’ Economist Intelligence Unit , più degli stessi Usa), ma propone di «riparare il tetto» della finanza pubblica finché c’è il sole non aspettando quando potrebbe ricominciare a piovere.
Noi invece, non appena la crescita sale di mezzo punto sopra lo zero, cantiamo vittoria e di tagli nessuno più parla (tranne lamentarsi poi per qualche decimale di crescita in meno).

Terzo: Osborne riduce il peso dello Stato sull’economia britannica. Il suo piano arresta, anzi inverte la crescita della spesa: nel 2020 quella complessiva, valutata a prezzi costanti, sarà dell’1% più bassa di dieci anni prima. E poiché, grazie ai tagli e alla minore pressione fiscale, nel frattempo l’economia è cresciuta, il peso della spesa pubblica sul Pil scende in un decennio di nove punti (dal 45 al 36 per cento), e anche il rapporto debito/Pil comincia a scendere.
Osborne i suoi «commissari», diversamente da noi, li ha usati bene. Per esempio, per ridurre gli sprechi negli acquisti del ministero della Difesa, Osborne nel 2010 assunse un manager dal settore privato, Bernard Gray. In cinque anni Gray ha rivoluzionato gli approvvigionamenti della Difesa, partendo dalla trasparenza negli appalti. La sua nomina ha fatto infuriare generali e ammiragli perché Gray ha l’abitudine di fare domande che i militari non vogliono sentirsi porre. Ma l’appoggio incondizionato di Osborne li ha zittiti. Il risultato sono stati risparmi di quasi 4 miliardi di sterline in cinque anni. Alcune misure di Osborne sono state fortemente criticate. Certo che viste dall’Italia risolverebbero molti problemi. Ad esempio i tagli ai tribunali compensati con il trasferimento di una parte del costo del «servizio» sugli imputati. Chissà che questo non sia un modo per ridurre la litigiosità degli italiani e far funzionare meglio la giustizia?
La cura Osborne, meno spesa e meno tasse, funziona aiutata solo in parte dalla svalutazione della sterlina nei due anni precedenti all’arrivo al governo dei conservatori. L’economia cresce e così aumentano anche le entrate dello Stato, a pari aliquote e in qualche caso con aliquote ridotte . Ciò ha consentito di aumentare dal prossimo anno le pensioni (del 3%) e di prevedere un aumento di 10 miliardi di sterline (da qui al 2020) nel bilancio della sanità pubblica. Non della scuola, e questo è il punto più debole di un programma che fa di più per gli anziani (sanità e pensioni appunto) che per i giovani.
La chiarezza e la trasparenza del progetto di Osborne consentirà agli inglesi, fra cinque anni, quando torneranno a votare, di decidere se ha mantenuto le sue promesse.

Un altro mondo rispetto all’Italia dove spending review parziali vanno e vengono e sono subito dimenticate, dove tagli minimi alla spesa paiono manovre erculee e sono bollati dalla gran parte dei politici come un attacco allo Stato sociale; dove la burocrazia è spesso un ostacolo insormontabile ai tagli per la semplice ragione che il potere dei burocrati deriva dall’amministrare la spesa pubblica, anche quella inutile; dove i cittadini fanno fatica a capire se fra un anno le aliquote dell’Iva aumenteranno (e quindi converrebbe anticipare alcuni acquisti), o se quell’aumento, oggi previsto dalla legge di Stabilità come clausola di garanzia, verrà rimandato. L’incertezza non facilita i consumi e tantomeno gli investimenti.

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