venerdì 8 gennaio 2016

OMAGGIO A VALERIO ZANONE

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Sembrerà magari strano che io, liberale di destra, sia stato da giovanissimo un convinto estimatore di Valerio Zanone, che del PLI fu segretario dalla metà degli '70, e che sicuramente è stato un liberale di "sinistra". Ma l'ammirazione totale per l'uomo, la sua cultura e la sua eleganza nei modi e nello spirito, facevano decisamente pregio su quella differenza.
Ricordo di averlo visto di persona nella sede di allora del partito a Fontana di Trevi, in occasione di un incontro in vista delle elezioni politiche. Avrò avuto 16/17 anni e mi piacque quel tono pacato, condito qua e la da un pizzico di garbata ironia, che ne facevano, anche a quei tempi sicuramente meno gridati, un'eccezione nel mondo politico.
Finita la prima repubblica, crollati i partiti tradizionali che ne avevano fatto parte costituente, Zanone non credette alla rivoluzione liberale di Berlusconi, e non mi sembra che i fatti gli abbiano dato torto. Dopodiché nemmeno la sua scommessa di trapiantare semi di liberalismo nell'Ulivo e/o nella Margherita mi pare sia riuscita.
Ma sono certo che il tentativo è stato fatto in buona fede, senza ombra di opportunismo.
Zanone è morto, a 79 anni, e io lo saluto per quello che è stato : un signore dalla schiena dritta, una persona assolutamente per bene.




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Addio a Zanone, il liberale che scelse il centrosinistra
Massimo Franco

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In un Paese dove liberali si professano un po’ tutti, Valerio Zanone liberale lo è stato davvero. Non solo perché del Pli fu per una dozzina d’anni il segretario, dopo aver raccolto, nel 1976, l’eredità di Giovanni Malagodi, che aveva a lungo criticato da sinistra. E neppure soltanto perché il Pli lo rappresentò più volte al governo, come ministro prima di Bettino Craxi, poi di Giovanni Goria e, infine, di Ciriaco De Mita.
Tutto questo conta, eccome, nella biografia di Zanone politico. Il fatto è, però, che in un tempo lontano in cui i rapporti tra politica e cultura erano infinitamente più stretti di quanto si possa oggi sospettare, Zanone, che pure si definiva «un arnese di partito», fu anche, e forse prima di tutto, un intellettuale. Di quelli seri, rigorosi, dotati, quando queste erano considerate virtù, di un forte senso del limite, dell’ironia e dell’autoironia, appassionati sì alla politica (retrobottega e spogliatoi compresi), ma per nulla inclini a far commercio delle proprie idee per buttarle in scena nelle forme fragorose e assieme accattivanti che la politica richiede. Avesse anche pensato di farlo, oltretutto, non ne sarebbe stato capace. Già quando, dopo le elezioni del 1976, arrivò a Montecitorio e poi alla guida del Pli, così apparve a noi, allora giovani cronisti politici, che alle cose del suo partito, universalmente considerato in via di estinzione, non eravamo davvero troppo attenti: non faceva notizia, Zanone, e non offriva succulenti retroscena, ma sul fatto che fosse persona colta e civile, e che il suo liberalismo senza aggettivi fosse prima di tutto un abito mentale, non c’erano dubbi.
Con il trascorrere degli anni, non c’è stato motivo di cambiare idea. Quando anche il Pli, di cui era diventato presidente dopo aver lasciato la segreteria a Renato Altissimo, fu coinvolto negli scandali di Tangentopoli, cercò di convogliarne le energie residue nel campo referendario di Mario Segni, nella speranza che la decomposizione dei partiti tradizionali aprisse la strada a una maggioranza liberaldemocratica. In questo spirito, fu, nel 1995, tra i fondatori dell’Ulivo di Romano Prodi e, nel 2001, della Margherita che, cinque anni dopo, lo riportò per l’ultima volta in Parlamento.
Nutrì molti dubbi sull’effettivo tasso di liberalismo del centrosinistra, ma pensò che fosse possibile piantarvi dei semi liberali, e si comportò di conseguenza. Mai pensò invece che per il liberalismo ci fosse spazio nel centrodestra, nonostante Silvio Berlusconi si fosse proclamato, sin dagli esordi, campione della «rivoluzione liberale». Quando, pochi mesi fa, Berlusconi si offrì di salvare la sua amatissima Fondazione Einaudi, a patto di nominare un nuovo consiglio d’amministrazione, Zanone, assieme all’altro presidente onorario, Roberto Einaudi, cercò di opporsi: meglio chiudere con dignità per mancanza di soldi che finire nell’orbita di un partito, per fargli da pensatoio o da scuola quadri o da fiore all’occhiello. Il concetto, in fondo, lo aveva già esposto tre anni fa, quando l’offerta berlusconiana non c’era ancora, nelle prime righe di un volume dedicato al cinquantesimo della Fondazione: «Biblioteche ed archivi non si prestano ai traslochi. In cinquant’anni la Fondazione Einaudi di Roma ne ha conosciuto soltanto uno, da Piazza in Lucina a Largo dei Fiorentini». Ragionavano così, in modo innegabilmente un po’ rétro , certi intellettuali politici di una volta. Forse è anche per questo che, quando se ne vanno, alcuni avvertono, per un attimo, un vago senso di vuoto.

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