Se si giocasse al gioco della Torre, e dovessi scegliere tra l'ex salvatore della patria, l'unto del Colle del tempo, e l'attuale super eroe, insisterei per ottenere una deroga e poterli gettare entrambi.
Parlo di Monti e Renzi, che ultimamente hanno polemizzato tra loro, ognuno col suo stile. Algido e professorale il primo, stradaiolo e fumino il secondo.
Due campioni di simpatia.
Nel merito, potremmo dire che hanno torto entrambi. Monti troppo antiitaliano - il suo modello di riferimento è, per sua ripetuta ammissione, la Germania (chissà se anche quella della Volkswagen che trucca i motori o della Deutsche Bank che lo fa con i conti ...) - e troppo succube delle direttive di una Unione Europea, a direzione teutonica, che da anni ormai è al minimo del consenso popolare dei cittadini dei paesi che la compongono.
Renzi non ha i conti a posto, non ha la forza per usare il piglio assunto ultimamente, nella determinazione assoluta di spendere e spandere, visto che l'economia non c'è verso di farla riprendere e dare le risorse di cui ha bisogno.
Sono anni difficili e, come si vede, non è bastato eliminare Berlusconi dalla scena politica per miracolare l'Italia.
Con lui sarebbe stato meglio ? No, assolutamente.
Ma, probabilmente, nemmeno peggio.
Uguale.
La resistenza di noialtri italici ai cambiamenti dolorosi cui dovremmo sottoporci per darci una rotta corretta (sicuramente meno fastosa di quella conosciuta nel secolo scorso, ma magari nemmeno così precaria come oggi) non sarà piegata dagli uomini che si stanno alternando.
Forse, e dico forse, solo un uomo verticale e capace come Mario Draghi potrebbe essere all'altezza di quei pochi uomini di stato validi che nella storia abbiamo avuto (Einaudi, De Gasperi, gente del genere) . Però, mi viene il timore, l'Italia di ieri era meno viziata di quella di oggi, e un po' meno rigida nei suoi egoismi particolari.
Il rottamatore e il professore.
Le due idee di
Italia di renzi e monti
di Aldo Cazzullo
Ci sono antipatie che si rivelano anche grandi semplificazioni. Mario Monti e Matteo Renzi si sono subito stati reciprocamente sulle scatole. E mercoledì sera il conflitto è deflagrato, senza neppure l’aplomb tra premier in carica e premier emerito, oltretutto fondatore di un partito che sostiene il governo.
Uno è flemmatico, l’altro sbrigativo. Uno è freddo, l’altro fumantino. Uno è di Varese, quasi svizzero, l’altro fiorentino del contado. Uno parla in sussurri, all’altro capita di alzare il tono. Uno ha fatto una bandiera del suo loden anglosassone, l’altro del suo giubbotto di pelle alla Arthur Fonzarelli. Uno parla inglese con accento di Oxford, l’altro di Rignano. Uno ha Enzo Moavero Milanesi, l’altro ha Luca Lotti. Uno sosteneva che gli italiani dovessero cambiare, l’altro dice di voler «cambiare l’Italia, non gli italiani, che mi piacciono così come sono». Uno è un professore, anzi un «professorone» come dice Renzi, a lungo rettore della più prestigiosa università privata d’Italia; l’altro è stato uno studente brillante ma impaziente, di quelli che vogliono saperne più dell’insegnante: a 17 anni sul giornalino del liceo Dante chiedeva le dimissioni del segretario Dc Forlani; mancò il 110 (si laureò con 109) perché discutendo la tesi aveva litigato con il relatore.
Il mondo di Mario Monti è quello delle élite transnazionali: i grandi atenei, le istituzioni europee, i think-tank, i club in cui i finanzieri incontrano gli economisti; insomma, «i convegni dove si dibatte, si mangiano le tartine al salmone, e non se ne azzecca una da vent’anni» come disse Renzi inaugurando il rubinettificio Bonomi a Gussago nel giorno in cui Monti come d’abitudine presiedeva una tavola rotonda a Cernobbio (dove l’anno dopo però è andato anche Renzi, atterrando in elicottero). Il Rottamatore è in fondo anch’egli — quasi come Grillo — figlio della rivolta non solo italiana contro le élite, l’establishment, le euroburocrazie, la classe dirigente tradizionale, di cui il professore è espressione.
E se il ruolo l’ha indotto o costretto a moderare
linguaggio e stile, gli attacchi come quello che Monti gli ha portato a Palazzo
Madama, in una serata già nera per lo stop alla legge sulle unioni civili, sono
per Renzi quasi un balsamo.
Se Monti — per quanto affilato, talvolta duro — tende alla mediazione, per Renzi il nemico è un’esigenza strategica e caratteriale.
Se Monti — per quanto affilato, talvolta duro — tende alla mediazione, per Renzi il nemico è un’esigenza strategica e caratteriale.
Meglio se il nemico ha
il volto non popolarissimo delle grandi banche, dei burocrati, degli «esperti»:
«Gli esperti hanno fatto il Titanic, i dilettanti hanno fatto l’Arca che salvò
l’umanità dal diluvio» è un’altra delle sue frasi preferite. Un istinto cui
Monti oppone un ragionamento: i veri «poteri forti» non sono le istituzioni, ma
le multinazionali della New Economy, che piacciono tanto a Renzi e a quelli
come lui ma distruggono più lavoro di quanto ne creino, accumulano e vendono
dati sui consumatori, pagano malvolentieri le tasse; per questo considera il
gioiello del suo curriculum la battaglia vinta contro Microsoft da commissario
europeo alla concorrenza.
Ma il vero terreno di scontro tra i due è l’Europa. Monti per Renzi è l’archetipo del presidente del Consiglio che va a Bruxelles e a Berlino «con il cappello in mano», curando l’accento british, badando al proprio percorso personale non meno che all’interesse nazionale, e quasi scusandosi di essere italiano: come a dire, «fossi per me farei tutto quello che mi dite e che va fatto, peccato avere dietro un Paese come l’Italia…». Renzi invece si sente il primo presidente del Consiglio che va in Europa non a prendere ordini, ma con il retropensiero di poterne dare. Dentro di sé va facendo in sostanza questo ragionamento:la Merkel
è entrata nella sua parabola discendente, non la vogliono più neppure quelli
del suo partito; Hollande sta in piedi per miracolo, forse non arriva neanche
al ballottaggio delle presidenziali; Cameron vuole quasi uscire; la Polonia si è messa fuori
gioco da sola; la Spagna
non riesce a fare un governo; insomma, «l’Italia può essere leader in Europa».
E nella testa di Renzi l’Italia in questo momento è lui.
Ma il vero terreno di scontro tra i due è l’Europa. Monti per Renzi è l’archetipo del presidente del Consiglio che va a Bruxelles e a Berlino «con il cappello in mano», curando l’accento british, badando al proprio percorso personale non meno che all’interesse nazionale, e quasi scusandosi di essere italiano: come a dire, «fossi per me farei tutto quello che mi dite e che va fatto, peccato avere dietro un Paese come l’Italia…». Renzi invece si sente il primo presidente del Consiglio che va in Europa non a prendere ordini, ma con il retropensiero di poterne dare. Dentro di sé va facendo in sostanza questo ragionamento:
Un’idea che Monti ha
intuito, e che intende rivoltare contro il premier accusandolo di «fare il male
dell’Europa».
Tutto lascia credere che la partita tra i due mondi sia appena cominciata. Il
Mario Monti che a sorpresa dà battaglia in Senato è il simbolo di un
establishment italiano ed europeo che si è stancato di Renzi, o che l’ha visto
fin dall’inizio come un «barbaro», un estraneo, un alieno, mentre dovrebbe
riconoscergli se non altro di aver portato nel sistema una carica di energia;
così come il premier dovrebbe riconoscere che Monti non è l’agente di un
complotto, ma esprime il timore diffuso che l’Italia possa ricadere
nell’isolamento e nel vizio della spesa facile.
Renzi ha una sola carta da
giocare: non tanto il partito, diviso su tutto; quanto il consenso. Il
referendum di ottobre, che cercherà di impostare proprio sul binomio
riforme-conservazione, popolo-élite, rottamazione-antico regime, sarà lo
spartiacque per capire quale tra i due mondi governerà la difficile uscita
dell’Italia dalla grande crisi.
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