Nel dare il dovuto spazio alle considerazioni e riflessioni personali del professore Angelo Panebianco, nei giorni successivi alla doppia aggressione subita mentre svolgeva la sua lezione all'Università di Bologna, ho particolarmente evidenziato il passaggio in cui scrive :
Una delle poche che mi scandalizza, e anzi mi indigna, è venire a sapere (come qualche volta mi è accaduto nel corso degli anni) di professori che approfittano dell’aula, e dell’autorità propria del ruolo che esercitano, per cercare di influenzare politicamente gli studenti.
Nell'applaudire convinto, mi è tornata in mente un'occasione in cui mi sono trovato con alcuni di questi emeriti (??) professori.
Ero stato coinvolto nella costituzione di una associazione con scopi culturali, e dopo l'incontro presso il notaio per la firma degli atti costitutivi, i fondatori, tutti sapienti cattedratici della facoltà di Lettere..., si recarono in un locale lì vicino per un brindisi augurale, e furono cortesi nell'invitarmi.
Parlando dell'Università e della tristissima situazione politica del momento (era l'era buia del Cavaliere...), uno di loro esortava i colleghi a dare battaglia nelle proprie aule, a fare utile proselitismo contro il nemico della civiltà, ottenendo adesioni e rassicurazioni ("ma certo che lo facciamo !!").
Me ne andai, con una scusa, non senza prima aver pagato il conto per tutti. Non mi andava di dovere qualcosa a gente simile.
Buona Lettura
Panebianco: il pensiero libero
e la tristezza di quegli slogan
Il professore contestato all’Università di Bologna: «La democrazia è un sistema fragile che si regge sul fatto che la moderazione politica prevalga sull’estremismo»
È difficile tentare di trarre qualche insegnamento generale
da vicende nelle quali siamo coinvolti personalmente. Manca
inevitabilmente la serenità e c’è sempre il rischio che l’emotività ci prenda
la mano, ci tolga lucidità. Tengo corsi all’Università di Bologna dal 1976. Per
la prima volta in vita mia, e per due volte di seguito, c’è stato il tentativo di pochi
aderenti a gruppuscoli politici di impedirmi di fare lezione. Il tentativo è
fallito grazie alla ferma e indignata reazione dei miei studenti che erano
venuti lì per seguire il corso. In ogni caso, quei gruppuscoli hanno ottenuto
la pubblicità di cui erano alla ricerca. Questi eventi mi hanno scosso (anche
se non intimidito). È molto sgradevole sentirsi dare dell’assassino, del
guerrafondaio, di quello che specula sui morti ammazzati. Ed è patetico (e
anche triste) sentire slogan e vedere cartelli con sopra scritto «fuori i
baroni della guerra dall’Università». Patetico, perché costoro nemmeno
sospettano quanta muffa e quante ragnatele ci siano in quegli slogan.
La democrazia fragile
Inizio con qualche osservazione di carattere generale sul
rapporto fra estremismo politico e democrazia. La democrazia è un regime molto
fragile, che si regge sul fatto che in ogni momento (il che non è affatto
scontato) la moderazione politica — nel senso in cui l’intendeva Montesquieu —
prevalga sull’estremismo. Se riescono a imporsi quelli che considerano l’altro
un nemico anziché un avversario, allora la democrazia è agonizzante. Si tenga
presente che la democrazia (qualunque altra cosa essa sia) è prima di tutto e
soprattutto un regime politico che, a differenza di tutti gli altri, risolve
pacificamente le proprie dispute interne, e pacificamente (con il voto)
sostituisce i governanti di cui gli elettori siano insoddisfatti. Se e quando prevale
l’estremismo queste condizioni svaniscono. Ciò non significa affatto
naturalmente che nelle democrazie più consolidate siano assenti correnti
estreme. È normale e fisiologico che ci siano, senza che per questo la
democrazia sia minacciata. Che quelle correnti diventino oppure no pericolose
dipende da un insieme di condizioni (che non è sempre facile individuare).
Possiamo forse limitarci a dire che nei momenti in cui (per esempio, a causa di
prolungate crisi economiche o di cambiamenti radicali nel quadro politico
internazionale), si diffondono ansia, paura e insicurezza, allora c’è il
rischio che quelle correnti si ingrossino. Ma ciò non basta.
Gli anni Settanta e oggi
Occorre anche che l’estremismo sia sospinto da una cultura
diffusa che ne legittima le azioni. Qui si colgono alcune differenze, ad
esempio, fra l’Italia degli anni Settanta, gli anni che sfociarono nel
terrorismo, e l’Italia di oggi. Allora c’era una cultura diffusa che
legittimava la «rivoluzione» e un gran numero di cattivi maestri che dicevano a
certi giovani «vai avanti tu». Oggi quella cultura diffusa non c’è più e anche
i cattivi maestri si sono dileguati (qualcuno, per la verità, ancora c’è: un
amico mi ha mandato copia di un articolo scritto da un «collega» — sic — che
inneggia al manipolo di eroi venuti da me per impedirmi di parlare).
Se questo
è per noi italiani il vantaggio dell’oggi rispetto agli anni Settanta, occorre
dire che c’è anche una differenza di opposto segno: negli anni Settanta c’era
la guerra fredda, e quindi un quadro internazionale stabile. Oggi (con l’Europa
a pezzi e il Medio Oriente in ebollizione) siamo in un’altra condizione. Si
dileguano uno dopo l’altro gli antichi punti di riferimento, e paura, ansia e
insicurezza inevitabilmente si diffondono. C’è un corollario importante e che,
incidentalmente, riguarda proprio il mestiere di chi scrive: la questione della
libertà di insegnamento. Solo le democrazie la tutelano. Quando è il governo a
colpirla significa che la democrazia è finita. Ma spesso è accaduto nella
storia delle democrazie che quella libertà sia stata, qua e là, aggredita dal
basso. Quasi sempre le democrazie riescono ad arginare il fenomeno. Qualche
volta non ci riescono e ne pagano il prezzo.
I perché dell’estremismo
Un altro insegnamento di carattere generale riguarda il
perché dell’estremismo politico: perché ci sono persone che si rinchiudono
volontariamente in quella prigione mentale costruita su frasi fatte e vuote, su
truci e insensati slogan, su urla che devono nascondere agli occhi degli altri
l’evidente paura del mondo che prova colui che grida? I percorsi individuali
che portano verso l’estremismo sono i più vari e spetta agli psicologi
esaminarli. Qui posso solo osservare che la politica è il luogo per eccellenza
nel quale paure e frustrazioni individuali possono trovare una valvola di
sfogo: un’aggressività verso l’altro che non si autogiustificasse con argomenti
«politici» apparirebbe agli stessi occhi di chi pone in essere il comportamento
aggressivo, come moralmente poco sostenibile. Invece, un’aggressività che si
pretende guidata da motivi politici rende possibile l’illusione che si tratti
di un comportamento «nobile», guidato da alti ideali morali. La politica è, da
sempre, il ricettacolo e la calamita di frustrazioni personali che vi cercano
una qualche forma di legittimità la quale, a sua volta, serva a giustificare
odio e aggressività.
Il ‘68 per noi non è durato un anno ma un decennio
C’è poi un’osservazione che si può fare sul caso italiano,
sulla nostra democrazia difficile. In un articolo che scrissi per il Corriere
nel 1993, in
occasione del venticinquennale del ’68 e che ho riletto proprio in questa
circostanza, mi chiedevo come mai il ’68 fosse stato un anno di moti
studenteschi in quasi tutto il mondo occidentale , salvo che in Italia. In
Italia il ’68 non fu un semplice «anno»: fu invece un decennio che si concluse
solo nel 1978 con il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro, quando la
rivoluzione immaginaria e parolaia finì e arrivarono quelli che facevano sul
serio. C’è sicuramente qualcosa di speciale nella cultura politica italiana —
sulla quale gli storici del futuro dovranno lavorare a lungo — che può spiegare
questa anomalia. Qualche cascame o residuo di quell’interminabile decennio è
ancora tra noi.
La cultura della sicurezza
Sono costretto — spero che i lettori del Corriere mi
perdoneranno — a concludere questo articolo con qualche osservazione che mi
riguarda direttamente. Contrariamente a quanto mi urlavano in faccia i
giovanotti del collettivo sventolandomi sotto il naso un mio articolo sulla
Libia, io non ho mai inneggiato alla guerra (solo i pazzi possono farlo).
Io ho
lamentato l’assenza di una cultura della sicurezza (e quindi della difesa da
minacce esterne) in un Paese che per un cinquantennio si è potuto permettere il
lusso di non disporne.
Si tratta, dicevo, di una assenza particolarmente grave
oggi, data una situazione che quasi certamente spingerà, sotto l’egida delle
Nazioni Unite, una coalizione di Paesi di cui faremo parte, a tentare di
stabilizzare la Libia ,
bloccando il pericolo mortale per tutti noi rappresentato dallo Stato islamico.
Né ho giustificato la guerra quando ho scritto, a proposito di Europa, che le
unificazioni politiche avvengono quando ci si difende da pericoli esterni. Era
una constatazione di fatto, basata sull’evidenza storica.
Distinguere fra
giudizi di fatto e giudizi di valore non è evidentemente una cosa alla portata
di tutte le menti.
Un solido muro a difesa del libero pensiero
Ma non è tanto la grossolana falsificazione delle tesi che
ho espresso sul Corriere che mi preme rintuzzare. La cosa che mi ha dato
più fastidio di questa faccenda è un’altra. Questi individui si sono permessi
di mettere in discussione la mia integrità professionale. Io tengo corsi di
scienza politica (con varie denominazioni) da un gran numero di anni.
A
dispetto del titolo della materia che insegno, sono particolarmente fiero del
fatto che mai mi è scappato un commento politico di fronte agli studenti.
Poche
cose sono in grado di scandalizzarmi.
Una delle poche che mi scandalizza, e
anzi mi indigna, è venire a sapere (come qualche volta mi è accaduto nel corso
degli anni) di professori che approfittano dell’aula, e dell’autorità propria
del ruolo che esercitano, per cercare di influenzare politicamente gli
studenti.
Ho imparato dai miei maestri, ai quali sono grato, a trattare con la
massima obiettività possibile (il massimo di obiettività umanamente possibile)
gli argomenti teorici che si devono affrontare in corsi come quelli che tengo
io. E ne sono orgoglioso. Poi ci sono le frasi fatte: non bisogna farsi
intimidire, eccetera, eccetera. I tentativi di intimidazione riescono alla
grande (se ne aggredisce uno e, in questo modo, in un solo colpo, si riesce a
intimidirne mille) se gli intimidatori e gli aspiranti tali non si trovano di
fronte a un solido muro eretto a difesa del libero pensiero.
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