domenica 21 febbraio 2016

TORNA DE BORTOLI E AMMONISCE RENZI : ATTENTO AL DEBITO

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Mi ha sorpreso stamane ritrovarmi di fronte all'editoriale di Ferruccio de Bortoli , pubblicato sul Corriere della Sera, del quale è stato per due volte direttore.
Mi risultava non avesse concluso in modo sereno il suo mandato, e un paio di messaggi trasversali li aveva mandati prima di lasciare la direzione : un paio di siluri ostili al premier (definito come persona istituzionalmente maleducata, il che, detto da uno prudente come de Bortoli, è peggio di un insulto al mestiere della madre ) , laddove l'editore probabilmente suggeriva profili più bassi ; un saluto caloroso ( e forse polemico nei confronti della proprietà)  a Piero Ostellino che lasciava il Corrierone sbattendo la porta dopo 40 anni di gloriosa carriera.
Non mi aspettavo quindi di rileggerlo, tanto più in prima pagina.
Oltretutto, sia pure con toni più soft rispetto alle ultime esternazioni, sempre molto critico nei confronti del governo renziano.
Motivo della critica : la sottovalutazione del debito pubblico.
Dargli torto è impossibile.
Buona Lettura




 

Debito pubblico pubbliche amnesie

di Ferruccio de Bortoli

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Le ultime previsioni sulla crescita italiana rendono assai improbabile, senza interventi correttivi, la discesa quest’anno del rapporto fra debito e prodotto interno lordo, oggi al 132,8 per cento. Se l’obiettivo venisse mancato, l’intera scommessa del governo Renzi — stimolare lo sviluppo con maggiore disavanzo — sarebbe perduta.
I meriti del governo, non pochi sulle riforme, verrebbero oscurati. Ne citiamo solo alcuni: Jobs act, riduzione della tassazione sul lavoro, ammortamenti e investimenti al Sud facilitati, Ires al 24 per cento dal prossimo anno. Un modesto esercizio di verità può aiutare a scongiurare un simile scenario.
L’anestetico (o il metadone) della Bce non è infinito. La congiuntura favorevole di euro e petrolio è irripetibile. Se il nostro debito, nel rapporto con il prodotto interno lordo (Pil), non dovesse scendere dopo nove anni, come promesso, il Paese sarebbe nuovamente esposto alla speculazione dei mercati.
L’ondata irrazionale che ha colpito le banche italiane, ingiustamente penalizzate anche per la quantità di titoli pubblici detenuti (389 miliardi), è un segnale da non trascurare.
L’amara realtà, di cui nel conformismo dilagante pochi discutono, è che abbiamo allegramente sottovalutato, in questi due anni, il peso del nostro debito (in aumento nel 2015 di 34 miliardi, a quota 2.169,9), riempiendoci la bocca di false giustificazioni, guardando stupidamente i conti degli altri in più rapido peggioramento ma da livelli inferiori.
I tedeschi lo considerano, esagerando, una colpa. Noi facciamo finta che non sia nostro. L’hanno fatto altri. Nei Comuni, nelle Regioni e nello Stato. Un solo esempio. Roma riceve un contributo annuale ( fino al 2040!) di 300 milioni dal Tesoro per la gestione del proprio debito (13,5 miliardi). Non crediamo se ne parlerà nella prossima campagna elettorale. E il fatto che quasi tutto il debito pubblico sia attribuito contabilmente allo Stato genera curiose forme di amnesia in Comuni e Regioni. Una famiglia responsabile si comporterebbe così? No. Se godesse di entrate straordinarie, come l’Italia nel 2015 — il risparmio sugli interessi per 5 miliardi, gli incassi della voluntary disclosure per altri 4 — li destinerebbe all’alleggerimento del debito o alla spesa corrente? Altra domanda retorica.
Negli anni scorsi erano state avanzate varie proposte non traumatiche (cioè senza una patrimoniale) di riduzione del debito: valorizzazione del patrimonio pubblico, emissioni di obbligazioni e riacquisto di titoli di Stato.

I dee forse non del tutto praticabili, ma frettolosamente accantonate pur essendo la fase dei tassi bassi, se non negativi, favorevole a operazioni di questo tipo. Oggi non se ne discute più, come se il problema fosse stato rimosso o considerato inesistente. Il debito italiano è per fortuna sostenibile. Ma i mercati ne apprezzano la gestione nel tempo se vi è un avanzo primario consistente (differenza tra entrate e uscite al netto degli interessi). Quell’avanzo è, nel 2015, all’1,7 per cento. Troppo basso per dimostrare la nostra volontà di arrivare al pareggio strutturale di bilancio. La deflazione non aiuta, aggrava.
L’Italia disperse, agli inizi del secolo, la grande opportunità costituita dall’abbattimento dei tassi, del famigerato spread . Il bonus dell’entrata nella moneta unica si tradusse in più spesa pubblica, assai poco produttiva di investimenti e lavoro.
Non vorremmo che anche questa occasione venisse dispersa. Ce ne pentiremmo amaramente.
Un’insensibilità pubblica sul tema del debito autorizza i centri di spesa a coltivare pessime abitudini, quando non fraudolente. Toglie tensione al risanamento reale. Dimostra una modesta cultura della responsabilità, l’unica in grado di allontanare, nell’Unione Europea, sospetti e vincoli a volte eccessivi. La spending review è in parte fallita, lo ha notato anche la Corte dei conti.
La lotta all’evasione fiscale non è una assoluta priorità. La flessibilità europea è spesso scambiata alla stregua di un inesistente credito bloccato a Bruxelles. Il deficit supplementare (2,5 per cento quest’anno) è sano se produce una crescita robusta e reale, allevia il carico fiscale laddove serve, si trasforma in un giusto investimento sul reddito e il lavoro futuro dei nostri figli.
Se invece muove — al netto dell’effetto dello stimolo monetario della Bce — solo pochi decimali di uno stentato sviluppo, è solo un fardello in più scaricato sulle prossime generazioni. I giovani non protestano, forse perché molti se ne sono andati (la maggioranza dei centomila emigrati l’anno scorso) e troppi sognano di farlo. Non c’è bonus che tenga.

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