PROPAGANDA, urla il centro destra, GUFI, risponde, more solito, il premier.
Parlo dei commenti sui dati dell'economia e dell'occupazione, che Palazzo Chigi dà in crescita, facendoti forte degli ultimi rilievi ISTAT.
Luca RIcolfi, da tempo annoverato tra i professoroni, e quindi gufo per elezione, stavolta spezza una lancia a favore di renzino.
Siccome da tempo il primo non è tenero col secondo - a mio avviso con pienissima ragione - va letta con attenzione la sua riflessione.
Vedrete che, nel segnalare finalmente qualche luce, le ombre continuano a prevalere. Non per responsabilità di Renzi, ché non è colpa sua se l'economia globale va come va. Però vale anche il contrario, e certi toni trionfalistici non si sa da dove gli vengano al putto toscano.
Forse si tratta di natura.
Buona Lettura
Finalmente le luci superano le ombre
Li aspettavamo con trepidazione, per non dire con ansia, i
dati dell’occupazione di gennaio. E questo per una ragione molto semplice, e
cioè che la decontribuzione totale per gli assunti a tempo indeterminato
terminava il 31 dicembre 2015, lasciando scoperti i mesi futuri. Quindi
qualsiasi impresa avesse avuto intenzione di assumere nei primi mesi del 2016,
avrebbe avuto ogni convenienza a precorrere i tempi e ad assumere fin da
dicembre, sfruttando il vantaggio della decontribuzione. Insomma, credo che
nessuno studioso del mercato del lavoro si sarebbe stupito di un dato di
gennaio negativo, con occupazione dipendente stagnante o addirittura in calo.
E invece eccoli lì, 71mila posti di lavoro dipendente in più
rispetto al mese di dicembre. Questo, perlomeno, è il dato provvisorio
(destagionalizzato) comunicato dall’Istat ieri mattina. Se come termine di
paragone si assume il mese di gennaio del 2015, l’aumento è di 448mila unità,
oltre il triplo dell’aumento fatto registrare nell’analogo periodo precedente,
ovvero fra gennaio 2014 e gennaio 2015 (+139mila). I dati non destagionalizzati
forniscono incrementi ancora maggiori, anche in questo caso più che tripli
rispetto a quelli registrati nel periodo precedente. Sono segnali molto
importanti perché, per la prima volta da quando si è arrestato il calo
dell’occupazione dipendente (ottobre 2013), la velocità di crescita dei posti
di lavoro su base annua ha sfondato la barriera dei 400mila posti di lavoro.
Fino al mese di dicembre 2015 l’incremento netto tendenziale di posti di
lavoro, a dispetto di decontribuzione e Jobs Act, era risultato assai più
basso, intorno alle 150mila unità nel primo semestre 2015 e intorno alle
300mila unità nel secondo semestre. Ora siamo a 450mila posti di lavoro in più,
e c’è solo da sperare che nei mesi prossimi la tendenza si rafforzi, e i dati
dell’intero primo trimestre del 2016 certifichino che non si è trattato di un
fuoco di paglia.
È stato merito del Jobs Act? È presto per dirlo, e
probabilmente non lo sapremo mai, perché – con i dati disponibili – è
impossibile isolare con sicurezza l’impatto del Jobs Act. Quel che si può dire,
tuttavia, è che da almeno un semestre la dinamica dell’occupazione appare un
po’ più vivace di quella che ci si sarebbe potuti attendere in base
all’andamento del Pil. La mia impressione, basata su un’analisi separata
dell’andamento dei posti di lavoro stabili e di quelli temporanei, è che in
realtà la ripresa occupazionale in corso abbia avuto almeno tre genitori: non
solo il contratto a tutele crescenti, ma innanzitutto la universalmente lodata
decontribuzione totale (gennaio 2015), e il quasi sempre dimenticato decreto
Poletti (marzo 2014), che liberalizzava i contratti a termine.
Questa congettura aiuta a comprendere la strana traiettoria del
tasso di occupazione precaria, cresciuto per oltre un anno, fino a toccare il
massimo storico nell’estate scorsa, ma da allora tendenzialmente calante. È
possibile, in altre parole, che il mercato del lavoro abbia puntato
prevalentemente sui contratti a termine fino al decollo della decontribuzione,
e si sia letteralmente avventato sui contratti a tempo indeterminato
all’approssimarsi della fine della decontribuzione. La massiccia ondata di
trasformazioni da tempo determinato a tempo indeterminato avvenuta nel mese di
dicembre ha per così dire chiuso il cerchio, riportando il tasso di occupazione
precaria più o meno al punto in cui si trovava nel 2014.
Tutto bene, dunque?
È presto per pronunciarsi, ma dopo il dato di gennaio – finalmente – le luci prevalgono sulle ombre. Che tuttavia restano, e non si possono nascondere.
È presto per pronunciarsi, ma dopo il dato di gennaio – finalmente – le luci prevalgono sulle ombre. Che tuttavia restano, e non si possono nascondere.
La prima ombra, su cui nessun singolo stato o governo può
agire in modo incisivo, è la congiuntura economica internazionale, che pare di
nuovo volgere al nuvolosetto. La seconda ombra è l’andamento dell’occupazione
globale che, è sempre bene ricordarlo, include anche il lavoro autonomo. Qui le
cose vanno meno bene, perché a fronte dei 448mila posti di lavoro dipendente
guadagnati in un anno bisogna registrare 149mila posti di lavoro indipendente
perduti. È probabile che una parte dei posti di lavoro dipendente creati
nell’ultimo anno siano trasformazioni di partite iva, co.co.pro, collaborazioni
occasionali in posti di lavoro subordinato. Il saldo fra l’incremento degli
occupati dipendenti e il crollo degli occupati indipendenti è ancora ampiamente
positivo (+299mila), ma solo se il termine di paragone è il mese di gennaio
2015. Se il termine di paragone è l’estate scorsa, oggi siamo sopra di soli
50mila occupati, e se il termine di paragone è agosto 2015, la serie
destagionalizzata dell’Istat registra appena 4mila occupati in più: insomma,
fra agosto 2015 e gennaio 2016 l’occupazione totale appare sostanzialmente
invariata.
Resterebbe una terza ombra, e forse è la più importante.
L’Italia ha un disperato bisogno di creare occupazione, perché – anche solo per
diventare un paese Ocse normale – le mancano qualcosa come 7 milioni di posti
di lavoro. Ma l’Italia ha anche bisogno, paradossalmente, di usare meno lavoro
per produrre quel che riesce a produrre e a vendere, perché il prodotto per
addetto ristagna da circa 15 anni, ed è addirittura calante da quando è
iniziata la crisi. Insomma, facciamo bene a rallegrarci quando l’occupazione
cresce, ma dovremmo al tempo stesso preoccuparci se questo avviene senza un
aumento più che proporzionale del prodotto, perché un paese a produttività
stagnante o declinante non può sperare di tornare a crescere e a competere,
ossia sull’unica strada che può portare ad aumenti di occupazione consistenti e
duraturi. Questo, purtroppo, è però quel che è successo da quando l’occupazione
ha smesso di diminuire, ovvero dall’ottobre 2013: da allora la tendenza di
fondo dell’occupazione totale è stata all’aumento, ma la tendenza di fondo del
prodotto per occupato è stata alla diminuzione.
È qui, a mio parere, il nostro nodo irrisolto. L’incapacità
di arrestare il lento declino della produttività è stato, e resta, il problema
centrale dell’Italia e della sua classe dirigente. Possiamo girarci intorno
finché vogliamo, ma non possiamo sperare di eluderlo. Come si dice in questi
casi: hic Rhodus, hic salta!
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