Come sempre pacato e pieno di buon senso il ragionamento di Alessandro Fugnoli, uomo immagino detestato dalle legioni di catastrofisti in servizio permanente effettivo, in questi giorni caldi non solo per l'esplosione dell'estate ma anche per il (falso) dramma della Brexit.
Sono convinto che la positività di Fugnoli sia molto figlia della sua vasta cultura, specie in campo storico. Chi conosce appena decentemente le vicende umane nel tempo, registra come gli annunci di "fine del mondo" sono assai frequenti, eppure...siamo ancora qui, e in genere registrando sempre un miglioramento rispetto al passato. Certo, il progresso non è uguale e veloce ovunque, e si assiste anche a spostamenti dell'asse.
Però il trend è quello.
Io, che sono tra quelli che pensano che un certo benessere a buon mercato - vale a dire con poco sforzo - che ha caratterizzato l'occidente nelle ultime decadi probabilmente è terminato, non credo che questo significhi tornare all'Italia della povertà contadina.
E la Brexit non è un' asteroide caduto sull'emisfero Europa.
Parlando però dell'Europa, Fugnoli avanza delle riflessioni critiche assolutamente corrette.
L'Unione Europea non è un destino divino.
Servono delle condizioni perché possa essere concepita e mantenuta : sicurezza, benessere e anche un progetto.
Dal 2008 tutta roba in crisi, e si vede.
Buona Lettura
CORPUS IRREGULARE
Europa, problemi a medio
termine, non a breve
di Alessandro Fugnoli
Un commento sull’Europa di un politico americano con
aspirazioni presidenziali. “Un corpo snervato, incapace di regolare le sue
parti. Insicuro nei confronti dei pericoli esterni e agitato da continui e
crescenti sommovimenti nella sua pancia. Una lunga storia di confusione, di
debolezza verso i forti e di forza oppressiva verso i deboli. Insomma un mostro
politico deforme”. Così scriveva James Madison sul Federalist nel 1787
riferendosi all’Unione Europea dei suoi tempi, il Sacro Romano Impero. Madison,
che sarebbe diventato presidente nel 1809, indicava nell’impero, un’accozzaglia
informe di stati e staterelli a geometria e geografia continuamente variabile
cuciti insieme con un inutile dispendio di scienza giuridica, il modello
federale da non seguire.
Madison riuscì a vedere la fine ingloriosa dell’impero,
travolto da una Francia che stava accendendo micce nazionaliste in tutto il
continente e dissolto in fretta e furia da Francesco II d’Austria nel 1806. E
tuttavia, nei suoi mille anni di storia inaugurati dal franco-tedesco Carlo
Magno, l’impero aveva spesso esercitato una funzione positiva e stabilizzatrice
nell’area politicamente più irrequieta del pianeta, l’Europa.
Gli imperi, storicamente, sono sempre stati entità più
fluide degli stati. Hanno sempre avuto un nucleo etnico centrale che disponeva
della potestas (gli italici e poi i greci nella Romània, i tedeschi nel Sacro
Romano Impero, gli inglesi nell’impero britannico fino ai russi nella III
Internazionale) ma l’imperium ha sempre dovuto derivare da un’auctoritas
socialmente riconosciuta, ovvero dal senso di una missione universale
condivisa.
Galli e britanni erano lieti di essere cittadini romani. L’italiano
Dante ammirava l’impero e non si preoccupava della sua impronta tedesca. Il
giovane Gandhi era orgoglioso di essere parte dell’impero britannico.
L’impero, come nota de Benoist, è un corpo mistico.
Può
essere giuridicamente un corpus irregulare complicato e opaco, ma deve garantire non solo benessere e sicurezza, ma anche il senso di un
progetto comune, civiltà verso barbarie. Se queste condizioni vengono meno, se
sicurezza, benessere e progetto si indeboliscono, l’impero diventa imperialismo
e Gandhi accetta di pagare il prezzo della guerra civile pur di liberarsi dagli
inglesi.
Dopo Brexit qualcuno in Italia è tornato a parlare
dell’Europa come Qu arto Reic h , c on un ’ allusione polemica,
probabilmente, al Reich hitleriano. In realtà l’Europa di oggi assomiglia
semmai al Sacro Romano Impero in uno dei suoi lunghi cicli di decadenza, quelle
fasi in cui le province lontane cominciano a risentirsi della potestas tedesca
e accarezzano sogni di indipendenza.
L’Europa, pur avendo dato un formidabile contributo al
benessere fino al 2008, è da sette anni il continente che cresce di meno (con
l’eccezione dell’Antartide, come dicono i Leave inglesi). Come nota Richard
Koo, ci sono 4.5 milioni di disoccupati in più rispetto al 2007, mentre
l’America e il Giappone (e il Regno Unito) sono in piena occupazione. Si noti
poi che c’è un’asimmetria tra i pensionati inglesi che vivono in Spagna,
portando consumi e non togliendo lavoro agli spagnoli, e i tre milioni di
europei che vivono nel Regno Unito, prevalentemente giovani che lavorano e che,
dovessero tornare, andrebbero a ingrossare le file dei nostri disoccupati.
Quanto alla sicurezza, si sa che per l’elettore medio è un
dato soggettivo e si sa bene che l’elettore medio accetta l’immigrazione in
periodi di crescita e benessere e tende a rifiutarla nelle fasi di stagnazione.
Avere proposto austerità e immigrazione (e ora anche bail in) in una fase
economica difficile è stato obiettivamente destabilizzante.
Per questo continuiamo a essere più preoccupati per l’Europa
che per il Regno Unito. Non è un caso che la borsa inglese sia in rialzo del 2
per cento da inizio anno mentre l’Euro Stoxx perde il 13. Londra va meglio
anche se si tiene conto della svalutazione della sterlina, una benedizione per
un Regno Unito che ha un disavanzo delle partite correnti pari al 7 per cento
del Pil.
Intendiamoci, la preoccupazione per l’Europa non è per il
breve termine. La Bce
va avanti con il suo programma. La crescita perderà qualche decimale ma nessuna
recessione è alle viste. La Fed
è più colomba che mai. Le valutazioni delle borse continentali sono
ragionevoli. L’instabilità post-Brexit è stata gestita benissimo dalle banche
centrali, che hanno consentito solo un riallineamento della sterlina e uno, più modesto, del renminbi, passato peraltro
quasi inosservato.
Quanto al piano politico ci vorrà almeno un anno prima che
si capisca veramente se il Regno Unito vuole uscire davvero o no.
Le
possibilità di referendum anti-Unione o anti-euro in giro per il continente
sono al momento molto remote, perché richiedono quasi ovunque modifiche
legislative o costituzionali che richiedono a loro volta che le forze
euroscettiche vincano maggioranze assolute nei loro parlamenti. E poi, come
abbiamo visto in Spagna, la voglia di imitare Brexit di alcuni è bilanciata
dalla paura di fare salti nel buio da parte di settori decisivi
dell’elettorato.
Di qui a fine anno la navigazione dei mercati, a condizione
che le nostre questioni bancarie vengano risolte, potrebbe non essere
particolarmente agitata. Brexit è una causa di divorzio, non un asteroide
caduto sulla Terra. Le cause di divorzio sono eventi potenzialmente
controllabili e non necessariamente dissanguanti a condizione che le parti
abbiano un minimo di senso pratico e non vogliano invece combattere battaglie
di principio. Quanto ad altri possibili problemi, un’eventuale vittoria di
Trump in novembre produrrà una certa agitazione sui mercati ma, come nel caso
di Brexit, sarà solo un fatto temporaneo. Sarà guardando gli sviluppi concreti,
e non quelli immaginati, che si potranno valutare le cose.
L’Europa ha ancora tempo per riformarsi. Non è iniziato
nessun processo disgregativo irreversibile, con buona pace di Soros, per la
semplice ragione che nella storia non esistono processi irreversibili. Lo
dimostra il fatto che fino a qualche tempo fa molti pensavano che a essere
irreversibile fosse proprio l’integrazione europea.
Certo, non è molto incoraggiante che l’Europa, che per
trattenere la Grecia
ha speso molte decine di miliardi e un’infinità di vertici concitati, mostri
solo stizza nei confronti del Regno Unito (si veda l’infantile abolizione
dell’inglese) e chiuda la porta in faccia alla Scozia che vorrebbe restare.
Sempre meglio, si dirà, del Barbarossa imperiale che rade al
suolo la ribelle Milano. Se non fosse che la ribelle Milano fu distrutta sì da
Barbarossa, ma su richiesta delle altre città lombarde. L’Europa è sempre stata
una cosa complicata.
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