sabato 9 luglio 2016

PER RENZINO UNA LUNGA ESTATE CALDA : GIU' I SONDAGGI

Eccoci, come sempre orgogliosi, su L' Opinione di oggi...


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L’estate di Renzino:
giù i sondaggi

di Stefano Turchetti
09 luglio 2016POLITICA
 
Un’estate rovente quella che sta attraversando il Premier toscano, con gli amati (poco, ultimamente) sondaggi che hanno smesso da un po’ di dare notizie rassicuranti sul referendum e, in questi giorni, segnalano il sorpasso nelle intenzioni di voto del Movimento 5 Stelle sul Partito Democratico. Tutto questo dopo la suonata delle amministrative, con la perdita non solo di Roma e Torino (a Napoli nemmeno il ballottaggio) ma di più di 40 dei municipi precedentemente amministrati. Per fortuna Beppe Sala ha salvato Milano, altrimenti era Caporetto. Siccome quando gira male... ecco la Brexit, con il tonfo delle Borse, e poi i riflettori puntati sulle banche italiane, che improvvisamente si scoprono (quasi) nude, e con i soliti tedeschi ben restii ad aiutarle. Last but not least, nuovo scandalo intercettazioni, dove ad essere coinvolto è niente di meno che l’alleato principale di Governo, il ministro dell’Interno Angelino Alfano.
Può bastare? Uno direbbe che avanza, ma Nando Pagnoncelli, sul Corriere della Sera, annuncia non solo il piccolo ma doloroso (dal punto di vista della propaganda) sorpasso nei sondaggi come primo partito ma, soprattutto, il mare che si va aprendo tra M5S e Pd in caso di ballottaggio alle elezioni politiche. Gli scenari del voto amministrativo, dove 19 volte su 20 a vincere sono stati gli ortotteri, con le punte di Roma e Torino, si ripeterebbero pari pari alle politiche. Annibale alle porte non funziona, e Beppe Grillo e le sue “creature” – Di Maio, Battista, Fico – non vengono più percepiti come dei Le Pen in salsa italiana. Non funziona l’appello alla Repubblica da salvare dai barbari grillini. Pagnoncelli lo spiega bene. In Italia, ancora nel 2013, quando pure Grillo vinse le politiche realizzando un imprevisto 25 per cento di voti (Bersani mai più ripreso dal colpo), due terzi degli italiani percepivano i pentastellati come dei protestatari inaffidabili. Oggi questa percentuale è scesa ad uno scarso 50 per cento, che non sarebbe sufficiente peraltro a convincere i non piddini a votare Renzi al ballottaggio.
In conclusione, tra Pd e M5S oggi ci sarebbe, all’ordalia del ballottaggio, una forbice di qualcosa come 13 punti! Ora, nella non scienza dei sondaggi, quando la distanza è di meno di tre punti, siamo nel fortemente aleatorio. Ma quando parliamo di 13 punti entriamo nell’altamente probabile! E infatti Giachetti, a Roma, per citarne uno, quel divario, scontato fin dalla partenza, non lo ha mai colmato.
Quello che sta accadendo è presto detto. Si ha un bel dire che sinistra e destra non esistono più. Molte cose sono cambiate, indubbiamente, ma al dunque, al momento del voto, i più ideologizzati restano fortemente ostili allo schieramento storicamente avverso, e non lo votano chiunque sia l’altro contendente. Anzi, piuttosto vanno in soccorso di quest’ultimo. Raggi e Appendino, prima di loro Pizzarotti e Nogarin, hanno pienamente fruito del voto “contro”. Pagnoncelli dà un colpo alla speranza dei renziani che alle politiche, quando sarà in ballo il governo nazionale, potrà essere diverso.
Nient’affatto. Se i 5 Stelle arrivano al ballottaggio (il centrodestra unito – una parola! – potrebbe superare sia loro che il Pd) non ce n’è per nessuno, potendo contare sui voti del centrodestra contro Renzi e su quelli della sinistra contro il successore del Cavaliere (ammesso che ne spunti uno). Nel primo caso, come detto, si parla di 13 punti, nel secondo si salirebbe a 20! Questo ci riporta alla vexata quaestio della legge elettorale. Pagnoncelli spiega che anche se contro i 5 Stelle si presentasse un listone di centrosinistra, il risultato finale non cambierebbe, portando Sel et similia non più di 4 punti in dote al Pd. Ci potrebbero essere i centristi (Alfano, i reduci di Casini, Monti e Verdini) nel listone, ma bisognerebbe vedere il contraccolpo sull’elettorato di sinistra di fronte ad un simile cartello elettorale, e comunque, col centrodestra schierato numeroso a favore dei grillini, questi ultimi vincerebbero lo stesso.
La conclusione, un po’ furbetta, di Pagnoncelli, è che la riforma dell’Italicum limitata al premio di maggioranza alla coalizione anziché alla sola lista/partito, non cambierebbe le cose. Giusto, numeri alla mano. Ma il problema che lor signori dovrebbero affrontare, e che Stefano Passigli invece perfettamente illustrava sul Corsera l’altro giorno, è proprio la previsione di un premio di maggioranza che non tenga contro dell’effettiva rappresentatività della formazione vincente, sia essa partito o coalizione. Alla fine, se gli italiani hanno deciso di provare Grillo e company, beh, tocca starci. Però che un 20 per cento del corpo elettorale possa ritrovarsi con la maggioranza assoluta in Parlamento e quindi l’incarico di Governo, mi sembra eccessivo. Eppure, sempre numeri alla mano, questa è l’attuale, concreta prospettiva. Chiunque finisca primo. Ed è questa che va disinnescata.
Il modo è semplice: stabilire che il premio di maggioranza operi solo raggiunto un certo quorum di partecipanti al voto (io direi il 70 per cento, alle ultime politiche, nel 2013, dove si toccò il record negativo, furono comunque il 75 per cento degli italiani a votare, quindi si può!) e questo sia al primo turno che al ballottaggio. Nel primo caso, per avere il premio, bisognerà arrivare primi con almeno il 40 per cento dei voti, nel secondo resterebbe l’asticella del quorum partecipativo. In mancanza, si potrebbe prevedere comunque un premio al partito di maggioranza relativa, ma non il regalo della maggioranza assoluta del Parlamento, e per il resto assegnazione proporzionale dei seggi (con una seria soglia di sbarramento al 4 per cento).
Insomma, se grillini si dovrà essere, che veramente accada perché una significativa, maggioritaria parte degli italiani ha così deciso. Il discorso vale per tutti. E possibilmente smettiamola con questo slogan dell’andare a dormire con la consapevolezza di chi ha vinto. Non è mai stato indispensabile. E se nessuno in Italia convince abbastanza cittadini ad affidargli la responsabilità di governare da solo, ebbene dovrà cercare alleati in Parlamento. Funziona così, e non è mortale.

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