Eccoci qui, tornati dalle vacanze, che per la prima volta hanno segnato il riposo non solo dall'attività forense ma anche da quella di "blogger".
Tra le cose apparse sui media prima della tragedia del terremoto, le notizie che mi avevano un po' più incuriosito erano quelle relative alla querelle del burkini (si, no, forse) e la clamorosa posizione del buen retiro sinistrese, parlo ovviamente di Capalbio, nei confronti dei profughi a vario titolo sbarcati sulle nostre coste.
Panebianco, opportunamente, ricorda questi signori nelle prime righe del suo articolo odierno dove parla sì della questione burkini ma accenna, nella premessa, a quei signori fin troppo noti e diffusi per definire i quali ci sarebbe un'espressione romana (ma conosciuta e tradotta in altri dialetti...) efficacissima ma decisamente troppo volgare. Diciamo solo che è facile parlare standosene seduti nei salotti e nelle terrazze delle proprie belle case, in quartieri dove questi poveracci non metteranno piede nemmeno di passaggio.
Venendo alla questione Burkini (che c'entra con l'altra in ragione della retorica multiculturale, razziale e via dicendo) bè ne ho piene le scatole del fondamentalismo laico dei francesi, che non è poi tanto migliore di quello religioso. Del resto, fin dal liceo leggevo con sospetto gli eccessi della rivoluzione francese, non a caso esplosi con le atrocità del Terrore, preferendo di gran lunga le precedenti di marca anglosassone, Inghilterra prima ( 1689, con la fine della Monarchia Assoluta per una costituzionale, con un Parlamento liberamente eletto e con il consolidamento del principio dell'Habeas Corpus) e Stati Uniti poi ( 1775/1783, che portò al varo della Costituzione, tuttora in vigore ... ).
Ecco, i francesi sono figli della propria rivolzione, e solo loro francesi potevano inventarsi la proibizione del burkini, perché non corrispondente ai valori della repubblica... Infatti il loro Consiglio di Stato, paragonabile alla nostra Corte Costituzionale, ha bocciato simile provvedimento, ma i sindaci sembrano fregarsene...
Non posso certo essere accusato di simpatie islamiste, semmai qualcuno, sbagliando, potrebbe annoverarmi sul fronte opposto, se non altro perché assolutamente d'accordo con la Rabbia e l'Orgoglio di Oriana Fallaci, ma arrivare a stabilire per legge cosa uno può indossare o meno, per motivi attinenti alla "morale laica", bè, come si suol dire di questi tempi, "anche no".
Il burkini non andrebbe bene perché manifestazione della sottomissione femminile alle regole patriarcali arabe.
A parte la perplessità sulla marea di gente, maschi tanti tra questa, che improvvisamente si appassiona su questo tema, e registrata la solita divisione tra le femministe (per alcune, meglio il burkini che le regole dell'edonismo e l'ostentazione occidentali : tesi interessante...) . si tratta comunque di una Battaglia culturale, allora, non legale, e auguri a chi vuole combatterla.
Panebianco è tra questi ultimi, senza però sognarsi di trasferire la lotta sul piano giuridico.
Buona Lettura
Perché è giusto disapprovare il burkini (ma vietarlo no)
di Angelo Panebianco
La confusa diatriba sul burkini, l’abito indossato dalle
donne musulmane per andare in spiaggia (vietarlo? permetterlo?) mostra quanto
sia complicato fare i conti con la «società multiculturale». Società
multiculturale è espressione che «piace alla gente che piace», a coloro che per
reddito, stili di vita, quartieri in cui risiedono, non devono stare ogni
giorno fianco a fianco, gomito a gomito, con le culture altre. Di tale società
essi danno spesso una descrizione idilliaca, non capiscono che le
caratteristiche delle società multiculturali dipendono dai rapporti di forza
fra i diversi gruppi.
Quali comportamenti gli europei dovrebbero pretendere da chi
viene da altre culture? Alle prese con i costumi altrui importati in Europa,
essi dovrebbero operare una triplice distinzione.
Ci sono usi che vanno proibiti e basta. Ci sono poi usi che
vanno permessi e anche rispettati. Ci sono, infine, usi che vanno permessi ma
pubblicamente censurati.
Alla prima categoria appartengono cose come il burka (che
comporta la copertura totale del volto della donna) oppure la poligamia. Il
burka è quanto di più antitetico si possa concepire rispetto al mondo
occidentale contemporaneo. Questo mondo si regge sul principio della
responsabilità individuale (è la ragione per cui dobbiamo essere riconoscibili,
a volto scoperto). Il burka è espressione di una cultura altra, anzi aliena,
nella quale la responsabilità degli atti di alcuni (nel caso specifico, le
donne) non appartiene a loro ma alla comunità o al capo famiglia. Come il
burka, anche la poligamia (fondata sul principio della disuguaglianza fra
uomini e donne) è incompatibile con noi e deve restare illegale.
Poi ci sono gli usi, né offensivi né dannosi, che vanno
senz’altro permessi, usi che non sono in conflitto con i nostri principi: riti
religiosi, tipi di abbigliamento che hanno un legittimo valore identitario,
certe abitudini alimentari (anche se non tutte). Vanno accettati con il
rispetto che si deve a chi, semplicemente, è stato allevato sotto un diverso
cielo culturale.
C’è infine una terza categoria di comportamenti, i quali
dovrebbero essere consentiti ma anche pubblicamente disapprovati. Mi sembra che
questo sia il caso del burkini. Vietarlo non ha senso per società che si dicono
liberali. Qui non stiamo parlando del burka che, come si è visto, è un’altra
storia. Solo gli stati autoritari pretendono di dettare l’abbigliamento delle
persone (lo hanno sempre fatto: ricordate la Cina di Mao?). Gli stati (sedicenti) liberali non
possono permetterselo. Dunque, il burkini non va messo fuori legge. Ma ciò non
significa che lo si debba anche approvare. Il burkini non è un capo di
abbigliamento come un altro. Testimonia di una sudditanza culturale, di una subordinazione
alla comunità che, alla luce dei nostri principi, va stigmatizzata. Devo
accettare che il burkini sia legale ma non devo solo per questo manifestare un
rispetto che non provo per un’usanza che non mi piace. È insensato, in nome di
un’acritica difesa della società multiculturale, osservare che il burkini
ricorda gli abiti con cui le nostre trisavole andavano in spiaggia. A meno che
chi fa la suddetta osservazione non stia anche sottintendendo che dovremmo
ritornare a quei tempi. Una donna che si metta a seno nudo in una spiaggia
affollata può anche essere considerata volgare ma sta facendo comunque una
libera scelta. A differenza della donna in burkini. Vietare no, disapprovare
sì. La pubblica riprovazione non sarebbe fine a se stessa. Servirebbe a
spronare, a incoraggiare, col tempo, l’emancipazione individuale,
l’allentamento del controllo comunitario sull’individuo.
Ma c’è un ma. Se governare una società multiculturale in
formazione richiederebbe di fare la suddetta triplice distinzione (cose da
vietare, cose da permettere e da rispettare, cose da permettere e da
disapprovare), attenersi a questa linea di comportamento è difficilissimo. A
causa di una forma di degenerazione culturale che ci ha colpito da tempo.
Mi
riferisco alla diffusa convinzione secondo cui legalità e moralità sarebbero
sinonimi: la tendenza a pensare che se qualcosa è legale allora sia anche
moralmente rispettabile e che, per converso, se qualcosa è illegale allora sia
anche, necessariamente, immorale. Ma moralità e legalità a volte convergono e a
volte no.
Ci sono comportamenti legali che non meritano alcun rispetto. Ci sono
anche talvolta violazioni di leggi stupide (che consideriamo stupide). Sono
violazioni che vanno comunque sanzionate, in coerenza con quell’ideale di “certezza
del diritto” il cui scopo è dare un minimo di prevedibilità ai rapporti umani.
Ma in questi casi non c’è proprio alcun bisogno di pronunciare anche condanne
morali.
La distinzione fra legalità e moralità è scomparsa dalla
mente di tante persone. E’ un male in sé. Ma è anche un male quando si tratta
di gestire la società multiculturale. Perché c’è il rischio che si finisca per
considerare moralmente rispettabile un qualsivoglia comportamento solo perché
legale. Verrebbe meno quella pressione sociale — la riprovazione collettiva di
certe pratiche — che può favorire l’emancipazione individuale di cui si è
detto.
È l’evoluzione dei rapporti di forza fra i gruppi a decidere
quale fisionomia assumerà la società multiculturale. Nei rapporti di forza contano
sia la quantità che la qualità. Il gruppo culturale numericamente più forte può
anche risultare, alla distanza, politicamente debole. Il che accade, ad
esempio, se la maggioranza di tale gruppo è in parte indifferente o distratta e
in parte divisa sulle scelte da fare, e se, inoltre, essa deve vedersela con
una minoranza culturale sostenuta da una forte identità religiosa.
Per evitare che prima o poi (a occhio, più prima che poi) le
«società parallele» che a causa della nostra dabbenaggine si sono già
costituite in Europa, vengano allo scoperto con tutte le loro pratiche, anche
quelle per noi inaccettabili, innescando così conflitti ingovernabili, conviene
che gli europei imparino in fretta l’arte della distinzione: questo sì, questo
no, questo sì ma senza alcuna approvazione da parte nostra .
Sono da sempre "irritato" da certo fondamentalismo islamico. Per essere più preciso intendo quello che sfocia in fanatismo e fondamentalismo.
RispondiEliminaMa quel fondamentalismo (o la degenerazione violenta dell'Islam) non può essere combattuto
tanto meno sconfitto con un fondamentalismo opposto. A meno di credere di poter estirpare dalla nostra società la parte musulmana tollerante e operosa di loro la regola dovrebbe essere di civile convivenza e interventismo (dello stato) ragionato e o riflessivo. Penso che certe "misure" rischiano di dare una motivazione e uno stimolo in più a certo islam .
Bentornato dalle ferie caro amico, ma adesso qualche giorno me lo faccio anch'io .
RispondiEliminaGrazie carissimo Leno , a sentirci presto quassù
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