Gli articoli del bravissimo Fugnoli si dividono sempre in due parti : quella iniziale la definirei di cultura generale, con aneddoti, sintesi storiche, metafore suggestive ancorché a volte azzardate ; la seconda, tecnica, relativa alle questioni finanziarie.
In genere la seconda la ometto o la stralcio, convinto che alla maggior parte dei lettori del Camerlengo interessi poco o punto.
Però alcuni sono curiosi e anche intenditori del secondo aspetto, e allora stavolta faccio così : riporto l'articolo intero, separando però in maniera immediatamente evidente le due parti, non solo attraverso la spaziatura, ma anche lasciando più piccolo il testo finanziario, sul quale non troverete evidenziazioni.
Stavolta il nostro tratta il controverso tema su cosa sia la Felicità, prendendo spunto dalla prossima curiosa scadenza stabilita da quell'ente stravagante e poco utile che sono le Nazioni Unite : il 20 marzo, non si sa perché, per cosa e per come, sarebbe il giorno internazionale della Felicità (????).
Vabbè è gente che cerca di giustificare la propria esistenza, costosa, e pazienza.
Però, partendo da questo anniversario strano, Fugnoli, a volo d'aquila, ripercorre il concetto di Felicità nella Storia, e naturalmente le diversità sono enormi.
FELICITA’ CRONICA
Borse appagate e fiduciose, ma non euforiche
Non sappiamo quanti se ne siano accorti, ma il 20 marzo è la Giornata Internazionale
della Felicità. Si celebra ogni anno dal 2012 sotto il patrocinio delle Nazioni
Unite. L’hanno istituita 193 paesi con le risoluzioni 65/309 e 66/281 ed è
dotata di un sito (happinessday.org), di un logo, di un Board of Directors e di
un Board of Trustees. Offre possibilità di carriera, come dice il sito, e in
questo momento è alla ricerca di stagisti da formare come esperti di social
media e come copywriter.
Oltre alla felicità burocratica esistono la felicità
filosofica, quella economica, quella medica, quella biologica e quella
sociologica. Di quella dei mercati parleremo dopo.
Nella storia della riflessione su questo tema si inizia
volando alto. La filosofia greca tradisce la sua origine socioculturale
aristocratica e predica la felicità come autocontrollo, realizzazione di sé
(Aristotele), perseguimento della virtù (Platone) e distacco dai piaceri
materiali per essere liberi di porsi obiettivi più elevati. È chiaramente una
filosofia per le élites, mentre le masse cercano la felicità nei riti magici e
dionisiaci e trovano comprensione nel solo Aristippo di Cirene, che non si
studia al liceo e che teorizza il godersi il presente in qualunque modo perché
il presente, a ben vedere, è la nostra unica realtà.
Il Medio Evo vola ancora più alto. La felicità terrena
diventa un obiettivo secondario (Tommaso rivaluta addirittura la tristezza,
che ci rende più vigili, creativi e motivati), mentre la beatitudine autentica
si raggiunge misticamente nell’itinerarium mentis in Deum di Bonaventura e
nella visione di Dio che Dante ci descrive.
Poi c’è il crollo. Cominciano i moderni, da Montaigne in
avanti, con una deregulation della questione. Per essere felice ognuno si
organizzi come può. La felicità diventa soggettiva e la Dichiarazione
d’Indipendenza scritta da Jefferson nel 1776 garantisce a tutti il diritto di
perseguirla, ciascuno come meglio crede.
Si torna a una visione elitaria con
Robespierre e Lenin (le avanguardie donano la felicità alle masse anche contro
la loro volontà) ma dopo i fallimenti del Novecento si prende a volare più
basso che si può.
Le teorie si frantumano, con il New Age tornano in auge
visioni gnostiche, la purificazione come anticamera dell’illuminazione e della
beatitudine diventa (con tutto il rispetto) yoga e beauty farm, mentre non uno,
ma ben cinque studi condotti indipendentemente gli uni dagli altri in Corea,
Iran, Cile, America e Inghilterra dimostrano la forte correlazione tra felicità
e consumo di frutta e verdura.
A tornare a una visione oggettiva e addirittura misurabile
della felicità ci pensano gli economisti, che in questi anni, con la loro
consueta grazia e leggerezza, hanno prodotto a ritmo crescente una serie di
indicatori come la
Felicità Nazionale Lorda (una metrica adottata ufficialmente
in Bhutan), il Benessere Nazionale Lordo, l’Indice dello Sviluppo Umano, il
Green and Happiness Index (adottato dalla Thailandia), il Better Life Index
dell’Ocse e tantissimi altri. Tra gli indicatori di felicità più considerati ci
sono di solito la durata della vita (da cui si deduce che più si è vecchi più
si è contenti), la durata degli studi (quelli che resero allegro Leopardi) e le
disparità di reddito (quelle che in Europa si pensa che abbiano fatto vincere
Trump anche se Trump non ne ha mai parlato una volta in vita sua). In Bhutan si
misura anche la felicità spirituale e con questo accorgimento le Nazioni Unite
lo hanno classificato nel 2016 come il paese più felice del mondo.
Sociologi, genetisti, psicologi ed economisti del
comportamento notano però che la correlazione tra ricchezza, reddito e felicità
è dubbia e forse non esiste proprio. Se si chiede alle persone come si sentono
nella vita i ricchi si proclamano più soddisfatti dei poveri, ma se si prova a
domandare come si sentono in quel momento preciso, che sia mattino pomeriggio o
sera, non si trova mai nessuna differenza. L’umore, dicono i medici, è funzione
dell’omeostasi (stiamo bene se abbiamo dormito abbastanza e se non abbiamo fame
o sete o prurito).
I genetisti del National Institute of Health notano che non
solo il benessere strutturale ma anche quello percepito hanno base genetica e
indagano allo scopo il gene trasportatore della serotonina, il 5 -HTTLPR.
Il padre dell’economia comportamentale
David Kahneman afferma dal canto suo che la crescita della felicità si arresta
sui 75mila dollari di reddito e che sopra è quasi inutile darsi da fare (dello
stesso avviso il keynesiano Skidelsky nel suo recente How Much Is Enough, di
avviso diverso Bezos, Buffett, Gates, Page e Brin, che hanno però obiettivi più
ambiziosi del solo denaro).
La felicità borsistica è un’occorrenza rara e ci sembra di
averla vista, dopo molto tempo, tra novembre e oggi. La felicità borsistica non
va confusa con il rialzo azionario. Per tre quarti del tempo, infatti, il
rialzo scala, come si suol dire, un muro di preoccupazione. Chi è dentro ci
guadagna, naturalmente, ma a prezzo di notti agitate e paure di ogni tipo (il
double-dip nel 2009-2010, l’Europa nel 2011-2012, il fiscal cliff e il taper
tantrum nel 2013, il rialzo dei tassi e poi la Cina tra il 2014 e il 2016). Chi gestisce soldi
si trova in queste fasi ad avere a che fare con clienti nervosi e preoccupati
anche se i risultati sono buoni ed è nervoso lui stesso.
Dopo tre, cinque, sette anni di nervosismo i rialzi prendono
strade diverse. A volte sono interrotti da crash drammatici, come nel 1987.
Altre volte cominciano ad appassire nel malumore, come nel 2007.
Altre volte ancora subiscono una mutazione genetica e da
timidi ed esitanti diventano aggressivi, violenti e incontrollabili, come nel
1999 per le borse e il 2007 per le case. In queste fasi i mercati sono come
posseduti (entusiasmo, etimologicamente, significa essere posseduti dal divino)
e non sono felici, ma, direbbero gli psichiatri, maniacali. Chi è dentro
diventa avido, perde ogni freno inibitorio e invece di rallegrarsi pensando ai
soldi che sta facendo si macera calcolando quanti di più potrebbe farne se
andasse a leva. Chi è fuori è roso dall’invidia, dal sospetto di essere
infinitamente stupido e dalla paura di perdere l’occasione della vita. Tutti
sono eccitati, nessuno è contento.
Nulla di tutto questo è stato visibile nel grande rialzo
seguito alle elezioni americane di novembre. Nessuno ha sofferto, nemmeno gli
short che, agili e attenti come sempre, hanno presto capito che il vento non
soffiava dalla loro parte e si sono rovesciati o hanno comunque chiuso. Gli
altri, il grosso, hanno comprato con moderazione e si sono limitati a non
vendere. Il risultato è che chi sta guadagnando non si lamenta del fatto che
avrebbe potuto guadagnare di più prendendo più rischi. Chi è restato fuori, dal
canto suo, non si rammarica troppo. Dopo tutto l’economia globale sta andando
bene anche per lui, l’occupazione
cresce, nessun bond fa default e chi guadagna in borsa ha il buon gusto di non
ostentarglielo.
Alla base di questa sensazione di benessere c’è un
ragionamento piuttosto semplice. Veniamo da anni di ansia in cui la politica ha
chiesto tasse, regole, austerità e multe. Ora tutto questo sembra alle spalle.
Se si realizzeranno davvero le riforme promesse non lo sappiamo, ma anche se
non dovesse realizzarsi nulla abbiamo la ragionevole certezza di non dovere
temere niente di negativo. Se poi qualcosa di buono si realizzerà, tanto
meglio.
Questa sensazione di leggerezza, avendo prodotto un
importante rialzo, si accompagna ora a una sensazione di appagamento. Si prende
qua e là qualche profitto, ma senza affanno. I grandi annunci di riforme sono
finiti e sono ormai nei prezzi, ma non è ancora nei prezzi la loro
realizzazione. L’iter delle riforme americane sarà laborioso, mentre il ciclo
elettorale europeo deve ancora iniziare, ma è difficile pensare che dal
Congresso non uscirà proprio nulla così come oggi è più difficile di ieri
pensare che dalle elezioni francesi uscirà la dissoluzione dell’euro. Certo, la Fed alzerà i tassi una volta
ogni tre mesi per tutto quest’anno, ma l’anno prossimo la Fed sarà politicamente
allineata con esecutivo e legislativo e alzerà solo se ce ne sarà bisogno.
Naturalmente molte cose possono ancora andare storte. I
contrasti tra i repubblicani su sanità e riforma fiscale possono rivelarsi
insanabili. Trump può commettere qualche grave errore o non commetterne nessuno
ma rivelarsi inefficace. La
Corea del Nord si sta divertendo molto a provocare il mondo
mentre il mondo non ha nessuna idea su come affrontarla. Il terrorismo potrebbe
spostare i risultati elettorali in Europa. Più le sorprese vere, quelle che non
siamo nemmeno in grado di immaginare.
Pur con queste avvertenze, un’esposizione ragionevole alle
borse (dove ragionevole significa commisurata a un ciclo economico maturo,
anche se non senile) ci sembra ancora una scelta corretta. Anche il dollaro
continua ad offrire qualcosa di interessante. Così com’è è in equilibrio, ma
fornisce una polizza gratuita rispetto alle elezioni francesi e alle
stravaganze coreane, mentre incorpora una call altrettanto gratuita in caso di
riforma fiscale americana inclusiva di border adjustment. Certo, se Macron
vincerà le elezioni l’euro si potrà rafforzare, ma quello che si perderà
eventualmente sul dollaro sarà meno di quello che si potrà guadagnare sulle
borse europee.
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