Paolo Miei è persona di spessore culturale indiscutibile e di intelligenza superiore alla media. Questo probabilmente ha favorito un'altissima considerazione di sé ed una crescente assertività nelle sue affermazioni. In TV, dove viene invitato spesso, assume a volte atteggiamenti che sfiorano l'arroganza, per quanto sempre espressa in modi urbani ( a differenza di Sgarbi, ma anche di Travaglio, per dire, e anche di Mentana).
I suoi articoli sono lo specchio di questa personalità. Gente come Ricolfi ragiona, Mieli afferma, senza se e senza ma.
Per lui non ci sono dubbi che noi italiani abbiamo fatto male a bocciare il referendum del 4 dicembre ( posizione quest'ultima sostenuta anche da persone di curriculum intellettuale non certo inferiore a quella dell'ex direttore del Corsera ) e che l'Italicum andasse mantenuto così com'era (sottesa, e nemmeno tanto, anche la critica alla Corte Costituzionale, che invece ha per fortuna bocciato il ballottaggio senza quorum partecipativi ).
L'orrore per Mieli, e parecchi come lui, NON è che in Italia, ma nel resto del mondo occidentale non va molto diversamente, non ci siano più forze politiche capaci di attrarre un consenso forte su un progetto, un'idea di Nazione e di Futuro (quello che auspica, inutilmente, Galli della Loggia). No, il "lepre" è che non sia COMUNQUE garantita la governabilità.
Ci sono solo minoranze in giro ? Pazienza, che la "più forte" (meno debole ?) minoranza vinca attraverso una qualche alchimia elettorale e amen.
Chissà Tocqueville, che metteva in guardia dalla dittatura della maggioranza, cosa penserà di queste invocazioni, da parte poi di liberali sedicenti, ad un potere affidato alle minoranze meno peggiori.
Curiosamente, sempre sul Corsera di oggi, sembra rispondere al collega Pierluigi Battista ricordando come la vituperata Prima Repubblica, ed il suo proporzionale, non fece solo disastri, e i governi di coalizione, almeno per i primi 20 anni, furono senz'altro più coesi ed omogenei di tutti quelli visti nella seconda repubblica con coalizioni più o meno arlecchinesche, costruite per vincere ma non per governare.
Lo propongo in un altro post, ché se no questo diventerebbe veramente troppo lungo, ma vi consiglio di leggere entrambi gli articoli e di confrontare il pensiero dei due giornalisti.
Pericolose nostalgie
Il cammino a ritroso
della politica italiana
della politica italiana
Per capire quanto stia cambiando la scena, si pensi che sono trascorsi tre mesi dal referendum e non si sa niente della nuova legge elettorale
Un disegno di Beppe Giacobbe
Dopo l’esito catastrofico del referendum sulla riforma costituzionale, per Matteo Renzi sarebbe stato sensato, secondo alcuni, ritirarsi provvisoriamente in vista di una ripartenza. Avrebbe dovuto cioè star lontano dall’Italia o comunque dalla vita pubblica per un lungo periodo, approfondire le ragioni della sconfitta, farsi in un certo senso dimenticare (e magari rimpiangere), elaborare un articolato piano per il futuro, e tornare sulla scena politica tra due o tre anni confidando nel fatto che alcuni suoi sostenitori e forse anche qualche ex avversario un giorno lo avrebbero richiamato sul ponte di comando. Certo, in questo modo avrebbe corso il rischio di essere dimenticato davvero e per un periodo più lungo di quello messo nel conto. Ma l’alea era il prezzo da pagare dopo una violenta battuta d’arresto.
Renzi, invece, non ha optato per la ripartenza, bensì per la rivincita. Per giunta in tempi rapidissimi, con una partita da giocare in un campo più ristretto, da lui ritenuto più congeniale: quello degli elettori del centrosinistra. Un azzardo. Compiuto mettendo nel conto, si spera, che una seconda disfatta, a differenza della prima, sarebbe riconducibile solo a lui e alla sua improvvida ansia di ottenere immediata riparazione per il torto riservatogli dal destino. Se le cose andassero male anche stavolta, verrebbe confinato forse definitivamente tra le personalità di secondo piano di un mondo politico in veloce trasformazione. E anche nel caso riuscisse a conquistare il cinquanta per cento più uno dei suoi elettori, il palcoscenico su cui si ritroverà a giocare un ruolo di primo piano sarà assai diverso da quello che è stato costretto ad abbandonare alla fine del 2016.
Per capire quanto stia cambiando la scena, basta prender nota del fatto che sono trascorsi tre mesi dal 4 dicembre e non si sa più niente della nuova legge elettorale. Prima si è dovuto attendere il fin troppo meditato responso della Corte costituzionale, poi ci si è rimessi in attesa delle motivazioni di tale verdetto; e adesso si procede (ammesso che ci si stia davvero muovendo) a ritmi che non possono certo dirsi forzati. Probabilmente il massimo che se ne caverà sarà, in extremis, un’armonizzazione tra le leggi — per la Camera e per il Senato — venute fuori dalle due diverse sentenze della Consulta. Poco male. A rimetterci è solo la decenza di una parte del Parlamento che aveva invocato le urne a scadenza naturale così da avere il tempo indispensabile per approfondire ed elaborare un sistema elettorale a quel punto — si presume — perfetto. E quando il tempo lo ha ottenuto, questa parte virtuosa del Parlamento si è ostentatamente, beffardamente disinteressata dell’intera questione.
Tale immobilità è dipesa probabilmente dalla volontà di non mettere l’altra metà delle Camere — quella che avrebbe voluto correre alle elezioni anticipate — nella tentazione di interrompere bruscamente la legislatura. Ma forse è dovuta anche alla diffusa consapevolezza del fatto che — una volta eliminato il ballottaggio — un sistema varrà l’altro, la legge avrà in ogni caso effetti di tipo proporzionale e quasi sicuramente le Camere della prossima legislatura non saranno in grado per settimane o mesi (forse mai) di partorire una nuova compagine governativa. Perché affrettarsi, dunque? Tanto vale godersi l’ultimo semestre di un quinquennio nel quale una maggioranza, sia pure con il sostegno di gruppi provenienti dall’opposizione, c’è stata e c’è ancora in entrambi i rami del Parlamento.
Quella che stiamo vivendo — lo si ripete spesso — è la storia di uno scivolamento all’indietro, alla Prima Repubblica. Peggio, un ritorno agli anni finali, alla crisi della Prima Repubblica. Quel triennio (1989-1992) in cui i grandi partiti tradizionali andavano in pezzi, veniva allo scoperto la voragine dei nostri conti pubblici, l’ancoraggio all’Europa non era assolutamente saldo, irrompevano sulla scena forze antisistema, i magistrati non si facevano scrupolo di mettere con le spalle al muro classi dirigenti purtroppo non immacolate. Adesso sembra che i partiti e i loro leader fatichino a comprendere il senso e le conseguenze di questo ritorno alle atmosfere di venticinque anni fa. Tutte pessime, tali conseguenze. Ma, per chi se la sente di guardare al tutto con una qualche dose di cinismo, con tre o quattro opportunità. La prima è quella per cui la sera delle elezioni ogni partito, ad eccezione delle formazioni rimaste stritolate sotto la soglia di sbarramento, potrà dire di aver avuto successo: la lezione di oltre quarant’anni di regime proporzionale insegna che quando non è l’elettorato a scegliere — direttamente o indirettamente — maggioranza e leader di governo, chiunque all’indomani del voto può trovare uno spunto che gli consenta di brindare alla propria vittoria. La seconda è che nei nuovi Parlamenti avanzeranno sul proscenio partiti più piccoli dotati di un forte potere di coalizione: questi «peseranno» più di altri che, pur avendo conquistato il doppio o il triplo dei loro voti, sono meno fungibili per le alleanze. Terza: a differenza di ciò che — come ha saggiamente ricordato su queste pagine Ricardo Franco Levi — accade nel resto d’Europa, da noi probabilmente non saranno i leader dei grandi partiti a guidare i governi, bensì personalità «di mediazione». Quarta, che, per le ragioni appena esposte, da adesso in poi presidenti del Consiglio e ministri torneranno a contare molto meno dei segretari e dei dirigenti delle formazioni politiche a cui fanno riferimento.
Nella Prima Repubblica, dopo la breve esperienza iniziale di Alcide De Gasperi, i capi dei partiti — con qualche peraltro sfortunata eccezione — preferirono consolidare il loro potere restando nelle retrovie e usarono le poltrone di governo come merce di scambio in funzione del proprio consolidamento. È probabile che tornerà a essere così e se si avvererà questa previsione, capiremo perché la prova decisiva nel Pd sarà stata quella per la segreteria giocata di qui al 30 aprile. Chiusa la quale, il nuovo leader non rischierà (diciamo meglio: rischierà meno) di essere rovesciato in seguito a risultati deludenti nelle elezioni amministrative o in quelle politiche. Ed è proprio per questo motivo che la battaglia per la leadership del Pd è già fin d’ora violentissima, lo sarà ogni giorno di più, non mancheranno sorprese a oggi neanche immaginabili e l’esito apparirà giorno dopo giorno sempre meno scontato. Si può, anzi, affermare che è la prima volta da quando, dieci anni fa, furono istituite le primarie, che quella per l’elezione del segretario Pd è una partita aperta. Apertissima.
Sul versante opposto, alla luce di ciò che si è detto, appare come non sufficientemente soppesata l’alzata di spalle con cui Matteo Salvini ha respinto l’offerta fattagli da Silvio Berlusconi (magari non del tutto in buona fede) di mettere a capo del centrodestra il governatore leghista del Veneto Luca Zaia. In primo luogo perché la posizione di un segretario in grado di imporre uno dei suoi alla guida della propria coalizione è molto più forte di quella di chi si candida in prima persona. In secondo luogo perché è assai probabile che alle prossime elezioni le personalità che guideranno liste e coalizioni saranno nient’altro che candidati di bandiera, dal momento che il vero capo del governo lo si dovrà scegliere poi sulla base di alchimie parlamentari ad oggi imprevedibili. Infine perché, proprio per il fatto di essere stato selezionato sulla base delle complicate manovre di cui si è detto, il presidente del Consiglio difficilmente poggerà su un assetto stabile e resterà in sella per l’intera legislatura. Quando i mari della politica sono in tempesta, si è sempre rivelato e ancor più d’ora in poi si rivelerà assai saggio, per le figure di primo piano, restare alla guida del proprio partito. E lasciare ai minori, ai vanesi, ai declinanti, ai capiclientela, ai «tecnici d’area» i posti di governo e di sottogoverno. Come accadeva, appunto, ai tempi della Prima Repubblica.
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