Nel leggere il contributo settimanale di Fugnoli, saranno contenti - ma la contentezza durerà poco - gli amici che conosco che hanno sostenuto per anni la necessità di politiche europee finanziariamente espansive, sullo stile americano - con Bernanke, ai tempi presidente della FED, e i suoi famosi elicotteri che lanciavano dollari - contro i rigoristi, nemici del debito pubblico, di politiche che salvano il presente compromettendo irrimediabilmente il futuro.
Fugnoli, dicevamo, tesse le lodi della ricetta americana adottata per affrontare la grande crisi del 2008, rilevando come gli europei, che si sono sempre eletti virtuosi e migliori dei cittadini statunitensi scialacquoni e predisposti ad indebitarsi all'infinito, alla fine per uscirne fuori si sono dovuti piegare alla logica del Quantitative Easing ( prestiti a tassi bassissimi pur di inondare di liquidità l'economia e farla ripartire a forza).
Fa anche presente, ed è questo l'aspetto non gradito a cui facevo prima riferimento, che nel 2019 Draghi cesserà il mandato di presidente della BCE e il suo posto verrà preso dal tedesco Weidmann...
Per gli "espansionisti" ma soprattutto per la nostra italietta non sarà un gran momento...
Buona Lettura
MACRON TRADE
Qualcosa di più della solita falsa partenza europea
Non occorre avere chissà quanti anni per ricordare situazioni
in cui la vecchia Europa, in un soprassalto di orgoglio, si è sentita divergere
in positivo dall’America. Queste situazioni sono state storicamente di tre
tipi.
Il primo tipo è stato quando è capitato di constatare
compiaciuti che noi non avevamo qualche loro grosso problema. Dagli anni
Settanta fino al 2008, per esempio, si è sempre detto che gli americani
vivevano sopra i loro mezzi accumulando debiti con l’estero mentre noi europei,
moralmente superiori, mantenevamo un tenore di vita sobrio e una sana
autodisciplina, essendone poi premiati da un marco e poi da un euro in costante
apprezzamento strutturale nei confronti del dollaro.
Allo stesso modo noi ci siamo spesso raccontati di non avere
i loro comportamenti patologicamente arrischiati nelle fasi di bolla azionaria
o immobiliare perché non eravamo avidi come loro. Salvo poi scoprire che, pur
non avendo creato bolle delle stesse dimensioni a casa nostra, avevamo però
dato un grosso contributo a finanziare le loro, prendendocene poi in faccia
l’esplosione.
Il secondo tipo di discorso autocelebrativo ha messo in
contrasto la serietà delle nostre politiche monetarie con il lassismo delle
loro. Quando sentono aria di fine ciclo e recessione in arrivo gli americani
sono velocissimi nell’abbassare i tassi e nel buttare giù il dollaro e non si
curano minimamente dell’inflazione, che in una recessione si cura da sola. Noi
(in particolare se tedeschi) guardiamo moltissimo l’inflazione (quella passata
ancora di più di quella futura) e a fine ciclo, quando l’inflazione è
tipicamente più alta, non abbassiamo la guardia, ma combattiamo con ancora
maggiore vigore il nemico che sta per morire da solo.
E così alziamo
i tassi nel luglio 2008, poche settimane prima che crolli tutto. Poi li alziamo
di nuovo non una ma due volte nel 2011, non appena sembra che le cose vadano
meglio. Tutto questo mentre l’America passa da un Quantitative easing
all’altro, sotto lo sguardo critico e severo dell’Europa, che si guarda bene
dal fare queste cose da Terzo Mondo. Salvo poi ricadere in recessione, noi e
non l’America, riabbassare precipitosamente i tassi tre mesi dopo averli alzati
e adottare il Qe tanto disprezzato con una foga tale da avere oggi, come Bce,
uno stato patrimoniale ancora più gonfio di quello della Fed (e fra un anno il
nostro sarà ancora più grosso mentre il loro sarà più piccolo di oggi).
Il terzo tipo
di discorso compiaciuto ce lo facciamo quel mese all’anno in cui capita che
l’Europa si comporti in borsa meglio dell’America. È iniziata una fase di
divergenza, ci chiediamo eccitati, forse che questa è la volta buona che ci
sganciamo da loro? In passato, a dire il vero, non si è mai andati al di là di
qualche settimana di performance più brillante o meno opaca della loro. Questa
volta, però, potrebbe essere diverso.
Il Macron
trade sta di fatto dando il cambio all’esausto Trump trade. Il Trump trade, la
cui ultima eco è ancora udibile nella borsa americana al massimo storico (ma
non più nel dollaro o nei tassi), è durato cinque mesi (negli ultimi due solo
pochi titoli sono saliti e molti sono scesi). Il Macron trade potrebbe durarne
altrettanti.
L’Europa ha
dalla sua due fattori, il primo politico e il secondo economico. Sul piano
politico non ci aspettiamo miracoli o svolte clamorose, ma una riforma del
lavoro e qualche taglio della spesa pubblica in Francia, uniti a un prudente
rilancio del processo di integrazione europeo saranno comunque una grossa
differenza rispetto al passato prossimo. Non sarà difficile fare meglio di
Hollande e non sarà difficile fare di più di Juncker. Resta l’Italia, certo, ma
a ottobre avremo qualche forma di grande coalizione che manterrà il paese
incollato. Insomma, non sarà necessariamente una vita esaltante quella
dell’Europa, ma sarà meglio, molto meglio, dell’ibernazione che precede la
decomposizione cui ci stavamo abituando.
Sul piano
economico l’Europa sta godendo dei benefici derivanti dall’avere abbandonato la
sua ricetta, l’austerità, e dall’avere adottato, con due-tre anni di ritardo, la strada americana.
La
migliore performance relativa dell’Europa quest’anno (e probabilmente anche il
prossimo) non deriva dalla superiorità del suo modello ma dall’avere adottato
quello che ha avuto successo in America. Chi è sano fa fatica a essere ancora
più sano, chi è malato può invece migliorare molto se si cura come si deve.
Gli spazi per
il Macron trade sono buoni, ma, esattamente come abbiamo visto con il Trump
trade quando tassi e dollaro a un certo punto sono entrati in collisione con la
borsa, euro e borsa saranno in competizione tra loro per chi si accaparrerà la
fetta più grossa, mentre l’obbligazionario di qualità soffrirà, anche se non
drammaticamente.
In ogni caso
l’euro è sottovalutato rispetto al dollaro, lo spread tra Bund e Treasuries è
eccessivo e una borsa europea che capitalizza 11 trilioni non si concilia con
una borsa americana che ne capitalizza 26. Tutto si dovrà normalizzare, con un
euro più forte, Bund più deboli e borsa più alta.
Per chi sta
sui mercati il problema sarà quello di capire se e quando lo scorpione che
aveva promesso di non mordere la rana inizierà di nuovo a morderla. Se e
quando, cioè, la politica fiscale e monetaria dell’Europa tornerà ad essere
europea, ovvero tedesca. Se e quando, in altre parole, torneremo a sentire
parlare di austerità e troika (riverniciate da ministro unico delle finanze e
Esm) sul piano fiscale, di euro forte sul piano valutario e di tassi più alti,
a Qe terminato, quando nel 2019 Weidmann prenderà il posto di Draghi.
È su questi
terreni che si combatterà nei prossimi mesi e anni nelle stanze ovattate di
Berlino, Francoforte e Bruxelles. Fino a settembre non succederà quasi nulla.
Poi, dopo la chiusura del ciclo elettorale europeo in ottobre, avremo una prima
sterzata verbale su tassi e Qe. Nel 2018 avremo prima la riduzione e poi la
fine del Qe. Nel 2019 avremo i primi rialzi dei tassi, con l’euro già intorno a
1.20.
Oltre a se
stessa in versione troppo tedesca, l’Europa avrà da temere incidenti di
percorso eventuali in America, in Cina o nei paesi emergenti. L’Europa non ha
mai esportato come oggi e la vitalità dei suoi mercati di sbocco è essenziale
per mantenere la sua crescita ai livelli attuali. Il problema è che America e
Cina sono in una fase matura del ciclo, anche se non ancora terminale.
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