Mieli pessimista, as usual da quando non è più direttore del Corriere della Sera, e in particolare di questi tempi dove veramente nessun schieramento politico, tra quelli candidati alle prossime elezioni, beneficia del suo favore. Ovviamente non il centro destra, non i grillini, e nemmeno i liberi e belli di Grasso & Co. Meno sfavore lo ha per il PD in salsa però gentiloniana, ché Renzi non è apprezzato per la sua ribalderia guascona.
Come tutti, Mieli prevede che nessuno vincerà le elezioni...sì certo, c'è chi dirà che le ha vinte perché è il primo partito (M5Stelle), chi invece rivendicherà la vittoria perché prima coalizione (centro destra,sempre stando ai sondaggi) e chi brinderà perché ha perso Renzi (Grasso e i suoi accoliti), se il putto toscano non andrà oltre il 25%, e magari anche renzino potrà dire la sua se supera i risultati di Bersani del 2013!
Ma un governo nessuno sarà in grado di farlo.
A quel punto si dovrà inventare qualcosa Mattarella ma non sarà semplice, come l'editorialista spiega, ma come sappiamo un po' tutti.
poi magari i sondaggisti sbagliano, una parte dell'esercito degli astensionisti (buon 30% dell'elettorato), decide di votare, e allora gli scenari potrebbero cambiare.
Improbabile, ma sempre possibile.
Elezioni 2018, gli scenari del dopo-voto e le alleanze
possibili
Con le coalizioni prospettate, l’unico punto su cui potrà
esserci accordo è l’abdicazione, in materia di riduzione del debito, ad ogni
principio di responsabilità
di Paolo Mieli
Su che tipo di combinazione governativa potremo contare dopo
le elezioni? Di chiaro, al momento, ci si può appoggiare solo a tre prese
d’atto, tutte e tre in negativo. Prima: presumibilmente nessun partito o
coalizione conquisterà la maggioranza assoluta dei voti, né quella dei seggi in
entrambe le Camere. Seconda: se anche ci riuscisse il Centrodestra (lo
schieramento che ha più chance), si tratterebbe di una maggioranza esigua,
attraversata per di più da una gigantesca faglia politica e senza un plausibile
candidato di Forza Italia (il partito che i sondaggi danno in vantaggio) per la
guida dell’esecutivo. Terza: anche in conseguenza di quel che si è detto,
neanche uno dei leader indicati sulle schede otterrà l’incarico di formare il
governo (e se lo dovesse ricevere, sarà un mandato esplorativo, «di cortesia»,
talché poi difficilmente riuscirà nell’impresa).
Quindi? L’ipotesi più probabile è che, dopo uno stallo, pur
di non tornare immediatamente al voto, si cerchi una soluzione e forse la si
trovi in un «governo del Presidente». Ma il governo che dovesse nascere da un
incontro tra parte del Centrodestra, Centrosinistra e truppe di transfughi da
altri partiti disporrebbe di una maggioranza piuttosto ridotta e, in una
situazione del genere, ogni riferimento all’unità nazionale sarebbe alquanto
improprio.
Le Grandi Coalizioni (ancorché travestite da governi appunto
«del Presidente», «tecnici» o comunque la fantasia ci suggerisca di chiamarli)
si realizzano di norma mettendo assieme i due partiti che alle elezioni hanno
ottenuto il maggior numero di voti, a cui eventualmente se ne possono
aggiungere un terzo e un quarto. Questo per consentire a tali formazioni — in
genere quelle che rappresentano la destra e la sinistra — di disporre quanto
meno del sessanta per cento dei parlamentari, così da mettere la coalizione
stessa al riparo dalle insidie dei voti a scrutinio segreto. Voti su leggi
spesso in contrasto con gli impegni assunti nel corso della campagna elettorale
dall’uno o l’altro contraente del patto dal momento che i programmi dei governi
imperniati su partiti fino a poco tempo prima antagonisti, sono, per loro
natura, basati su compromessi e rinunce simmetriche. Ciò che, ad ogni evidenza,
può offrire il pretesto per accuse di «tradimento delle promesse elettorali»,
provenienti oltre che dall’esterno, anche dalla parte più intransigente dei
partiti coalizzati. E tali accuse sono destinate a moltiplicarsi anche perché
coprono un fisiologico (e assai meno nobile) istinto a rendere instabile la
coalizione così da provocare un ininterrotto ricambio ai posti di governo e di
comando. Ecco perché le coalizioni devono essere «grandi»: perché quando invece
i parlamentari sono in numero tale da consentire il varo del governo con una
manciata di voti, cresce a dismisura il potere di ricatto delle minoranze
inquiete.
Se poi, come si prospetta, ad essere escluso dalla Grande
Coalizione è il partito di maggioranza relativa – caso, nella storia, piuttosto
infrequente - i governi rischiano ancor più, dal momento che ai problemi di cui
si è detto si aggiunge quello della sofferenza indotta da crisi di
legittimazione. Cosa, quest’ultima, da tenere bene a mente: potrebbe darsi,
infatti, che alle elezioni successive venga premiato proprio il partito escluso
dalla Grande Coalizione se si sarà dedicato nei tempi dell’intera legislatura
ad un’ininterrotta campagna elettorale imperniata sulla recriminazione per il
proprio mancato inserimento nel governo (a dispetto dell’esser stato il partito
più votato dagli elettori). È vero, stando alla Costituzione, questa
circostanza non dovrebbe essere neanche presa in considerazione: per guidare i
governi il Presidente della Repubblica è tenuto solo a scegliere chi è in grado
di coalizzare una maggioranza. Nient’altro. Ma non dovremmo dimenticare che
abbiamo alle spalle venticinque anni in cui gli italiani hanno introiettato il
mito che sia il corpo elettorale a decidere chi debba andare a Palazzo Chigi
(il che, tra l’altro, è , almeno in parte, accaduto). Di conseguenza, dovremmo
considerare rischioso provocare un brusco risveglio da un sogno durato un quarto
di secolo, per dar vita oltretutto ad un governo dalla maggioranza risicata.
Ma c’è anche uno scenario su cui si sta ragionando. Lo
schema differente potrebbe essere che il capo dello Stato avvii le
consultazioni, constati l’impossibilità di mettere in piedi una coalizione che
abbia i numeri per governare e prospetti, conseguentemente, nuove elezioni. Con
l’aggiunta, però, di una «piccola avvertenza»: prima di avviare il Paese ad una
seconda consultazione, anche ad evitare di ritrovarci — dopo lo scrutinio dei
voti — al punto in cui si era, si imporrebbe di rimetter mano alla legge
elettorale. E al partito di maggioranza relativa verrebbe conferito un ruolo di
primo piano nel processo per la definizione delle nuove norme in vista del
ritorno alle urne. Contemporaneamente, per dare alle Camere il tempo di
riuscire in questa non semplice impresa, il Parlamento dovrebbe votare la
fiducia ad un gabinetto di «limitatissime ambizioni». Nella fattispecie — se i
risultati del 4 marzo fossero più o meno quelli annunciati dai sondaggi — un
parlamentare Cinquestelle avrebbe la regia della Commissione per la riforma
elettorale e uno appartenente al secondo partito per numero di voti, il Partito
democratico, otterrebbe la guida del governo. Con ogni probabilità verrebbe
richiamato a Palazzo Chigi l’attuale Presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni
(mai uscito di scena), che darebbe vita, però, ad un nuovo gabinetto nel quale
entrerebbero anche esponenti della Destra e forse del partito di Pietro Grasso.
In questo modo il movimento di Luigi Di Maio entrerebbe in possesso delle
chiavi per l’accensione e lo spegnimento del motore dell’intera legislatura; in
cambio dovrebbe garantire l’astensione o quantomeno un’opposizione morbida al
governo e si configurerebbe così una coalizione, questa sì davvero grande, in
grado di coinvolgere, in senso lato, anche il partito di Beppe Grillo. Nel caso
poi, tutt’altro che improbabile, i Cinquestelle controproponessero
un’inversione di ruoli (a loro il governo, agli altri la guida della
commissione per rivedere la legge elettorale) si potrebbe optare per un
gabinetto politicamente più scolorito a partire dalla figura del presidente del
Consiglio.
C’è però una pecca. Essendo questo — o un altro dello stesso
genere — lo scenario più plausibile, si può comprendere perché, quando manca
poco più di un mese dal giorno del voto, nessun partito (sottolineiamo:
nessuno) si senta in dovere di sottoporre ai propri elettori un progetto per
avviare l’Italia sulla via dell’abbattimento del debito. Già è consuetudine che
in campagna elettorale venga il tempo dei demagoghi, inclini esclusivamente
agli annunci di revisione del fiscal compact, di detassazione e di spesa. Per
di più con le coalizioni prospettate, l’unico punto su cui potrà esserci
accordo unanime — si può esserne certi — è l’abdicazione, in materia di
riduzione del debito, ad ogni principio di responsabilità. Grande, piccolo?
Anche minimo.
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