Una delle - poche direi - cose che vedono me e Mauro Anetrini (uomo che sarei felice di vedere nel prossimo Senato della Repubblica) in disaccordo è la questione della libertà dell'eletto da vincoli di mandato.
La Costituzione, si sa, è dalla sua parte : il vincolo non può esserci, il rappresentante del popolo agisce in piena libertà di coscienza.
Apparentemente, giusto. Però ci sta che nel tempo questa coscienza, mai del tutto limpida e ferrea, sia assolutamente declinata al ribasso, e la legislatura che si è appena conclusa vanta il triste record storico della cosiddetta transumanza, con centinaia (!!??) di parlamentari, più di un terzo del totale, che sono passati altrove rispetto al partito o schieramento nel quale era stato eletto. In alcuni casi il salto della quaglia è stato oltretutto vertiginoso, con gente dichiaratamente di destra che è finita a sostenere i governi di sinistra. Alcuni di questi signori hanno già pagato il prezzo della loro "coscienza", e hanno capito che era del tutto inutile ripresentarsi (parlo di Alfano ), altri confido prenderanno la giusta legnata alle urne ( i vari alfaniani, e in primis Lorenzin e Cicchitto, Verdini e i suoi peripatetici di ALA o come il disinvolto faccendiere ha variamente chiamata i suoi "professionisti").
Ora, che il voto alla fine sia poco più di un rito, specie da noi, è purtroppo una realtà difficile da negare, e vengono in mente le parole di Max Twain che commentava con ironia amara che se votare servisse veramente, non ce lo farebbero fare.
Però non è che si abbia molto altro, noi cittadini normali, e quindi facciamo finta che un pochino serva.
Alla fine, per dire, una legnata non da poco noialtri votanti l'abbiamo data a Renzino sul referendum costituzionale, e da allora non ha più camminato dritto...
Certo, il referendum è strumento meno manipolabile ( fanno anche quello...) però anche impedire che sia gente come Di Maio a provare a fare gli apprendisti stregoni (tipo Raggi a Roma, per dire) è qualcosa che vale la pena di tentare.
Ciò posto, torniamo al problema del vincolo di mandato. Galli della Loggia ripropone la questione scrivendo sul Corsera cose che condivido :
1) E' brutto che chi viene eletto possa fregarsene del modo in cui lo è stato, del fatto che i voti in realtà non sono andati a lui ma allo schieramento che lo ha candidato (e questa è una realtà sempre più gigantesca da noi)
2) E' anche brutto che un eletto sia un mero pupazzo delle segreterie dei partiti
3) Unica vera soluzione, una legge elettorale con collegi uninominali piccoli, dove sia possibile almeno in potenza stabilire un rapporto diretto tra elettori e candidati. A quel punto io introdurrei anche il sistema del RECALL esistente negli USA, per il quale una certa, significativa percentuale degli elettori di un dato collegio possa revocare (votando sul punto) il mandato conferito.
In ogni caso, in un sistema siffatto, quello dei collegi uniniminale ristretti (che esiste in Gran Bretagna e in diversi stati americani), il rappresentante del popolo veramente dovrà, prima o poi, rendere conto delle sue scelte.
Da noi no. Una Lorenzin, per dire, o un Cicchitto, possono magari ottenere di essere candidati in collegi sicuri, se non altro nel proporzionale, ed essere rieletti laddove la gente di centro destra non vede l'ora di bastonarli mentre quelli di sinistra non se li pensano proprio !
Quindi, nell'essere d'accordo con il professore che i due mali sono tali entrambi ( il parlamentare banderuola indegna e il servo sciocco) , in mancanza di un sistema elettorale che li eviti o quantomeno li riduca, preferisco, in questo momento, il servo sciocco e questo perché NESSUNO o quasi di questi signori va in Parlamento per un consenso proprio, ma solo e soltanto per grazia ricevuta dei capi partito. E quindi, visto che la maggior parte di loro ha strisciato per ottenere quel posto, può ben continuare a farlo dopo.
Ne riparleremo
Gli eletti in parlamento e i due mali da evitare
A una grande maggioranza degli elettori italiani non piace
il fenomeno dei parlamentari «nominati». Cioè di quegli uomini o donne che
entrano alle Camere per il solo fatto di essere stati designati dalla
segreteria del proprio partito
di Ernesto Galli
della Loggia
Alla grande maggioranza degli elettori italiani, giustamente
scandalizzati dell’enorme numero di parlamentari che durante la legislatura
appena conclusa sono trasmigrati da un partito all’altro cambiando
disinvoltamente perfino collocazione politica — prima di destra e poi di
sinistra o viceversa — non piace per nulla il dettato costituzionale che vieta
il mandato imperativo. Non piace cioè quella norma che impedisce che le
trasmigrazioni suddette siano messe al bando dal momento che la libertà del singolo
parlamentare di muoversi come vuole nella vita politica una volta eletto, di
votare come vuole, di cambiare partito come vuole, non può essere limitata in
alcun modo né dalle sue precedenti collocazioni di partito né dalle opinioni
dei suoi elettori. La grande maggioranza degli elettori pensa invece (ed è
certamente nel vero) che così si favoriscono inevitabilmente i peggiori maneggi
dietro le quinte, la corruzione della vita pubblica, il trasformismo.
Fatto sta, però, che la medesima grande maggioranza degli
elettori italiani è giustamente scandalizzata pure da un altro fenomeno: quello
dei parlamentari «nominati». Cioè di quegli uomini o donne che entrano alle
Camere per il solo fatto di essere stati designati dalla segreteria del proprio
partito a occupare un posto in una lista «bloccata», il che in pratica assicura
loro un’elezione sicura
Si pensa non a torto che in realtà un parlamentare
«nominato» non è libero di decidere davvero con la sua testa, che egli, specie
se vuole essere rieletto (e tutti lo vogliono) è di fatto un semplice burattino
nelle mani di chi gli ha regalato il seggio. Cioè dei capi del suo partito,
sicché ogni sua decisione dipende in tutto e per tutto dalla loro volontà.
Il guaio è che il motivo appena detto che viene invocato per
protestare contro i parlamentari «nominati» è però, come si capisce,
esattamente il medesimo che invece viene combattuto e disapprovato quando si
tratta dei parlamentari «transfughi». Insomma, la libertà del parlamentare
rispetto alla lista che lo ha fatto eleggere viene deprecata una volta, come
fonte di malcostume, e un’altra, viceversa, viene invocata come strumento della
sua necessaria autonomia rispetto ai diktat dei capipartito. Si tratterebbe
dunque di decidere tra due mali, per la verità uno peggio dell’altro: o avere
un parlamento simile a una congrega di potenziali individualisti sfrenati,
liberi di fare e disfare a proprio piacere perché privi di veri vincoli, o
accettare la realtà di un’assemblea di fantocci pronti a premere il bottone
delle votazioni agli ordini di pochi capataz.
In verità, un sistema per cercare di attenuare (non
cancellare, ma attenuare di molto sì) questa malefica alternativa ci sarebbe.
Si chiama collegio maggioritario uninominale. Cioè far eleggere ogni
parlamentare in un collegio di non più di 80-100 mila elettori dove si può
presentare un solo candidato per lista, e vince chi prende un voto in più di
ogni altro. Vale a dire radicando un candidato in un ambito territoriale in
qualche modo a lui familiare o che gli diventerà tale, e i cui abitanti molto
probabilmente avranno di lui già una certa conoscenza o se egli è eletto se la
faranno, sicché se alla fine egli tradirà il loro mandato essi ben
difficilmente lo voteranno una seconda volta, e per lui non sarà tanto facile
trasmigrare altrove.
Proprio perché dà così grande potere agli elettori si tratta
però di un sistema che non piace affatto ai partiti: a tutti, compresi dunque i
grillini che pure a chiacchiere dicono di esser a favore della democrazia
diretta. Partiti i quali hanno invece il naturale interesse a restare padroni
ad ogni costo dei «propri» parlamentari, sicché, anche quando sono costretti
dalla spinta dell’opinione pubblica a introdurre il suddetto sistema, lo fanno
però solo in parte, come per l’appunto avviene oggi in Italia, rifacendosi
grazie alla proporzionale con liste bloccate di quello che hanno dovuto
limitatamente «concedere» con il maggioritario uninominale (non senza prima,
però, aver snaturato quest’ultimo stabilendo fraudolentemente che non può
esserci voto disgiunto, che cioè il voto nell’uninominale vale automaticamente
anche nel proporzionale).
Coloro che davvero vogliono moralizzare i comportamenti di
deputati e senatori, è sul modo della loro elezione e del relativo rapporto con
i partiti, dunque, che dovrebbero insistere, non già chiedere d’introdurre il
vincolo di mandato. Il cui divieto, come ho detto, non solo anch’essi poi
paradossalmente invocano contro i parlamentari «nominati», ma ha la sua fondamentale
ragion d’essere nel fatto, di cui bisogna convincersi, che la democrazia
diretta è solo una favola usata dai demagoghi per ingannare i gonzi. E che
proprio perché è una favola — hanno mai pensato ad esempio gli elettori
grillini che se davvero dovessero essere loro a decidere da casa con un clic
sull’approvazione delle leggi dovrebbero, per capirci qualcosa, passare ore e
ore ogni settimana a leggersi centinaia di pagine di documenti? — proprio
perché la democrazia diretta non può esistere, i parlamentari devono essere
liberi di decidere come vogliono per non divenire i passivi servitori di
nessuno. Come peraltro, aggiungo, si spera che anche i sullodati elettori,
grillini o no, vorrebbero essere liberi di decidere a loro piacere se mai
avessero la possibilità di votare da casa loro. Perché alla fine è sempre
meglio avere una libertà di cui si può abusare che non avere alcuna libertà.
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