Mi era sfuggita la morte di Piero Ostellino, uno degli ultimi grandi liberali.
Colpa mia, sicuramente, perché praticamente tutti i giornali il giorno successivo alla morte - avvenuta lo scorso 10 marzo - gli hanno dedicato il giusto omaggio.
Però avendo mancato la notizia quel giorno, non ho avuto modo di recuperare, perché nessuno ne ha più parlato.
Di Fabrizio Frizzi, tv e giornali hanno parlato per tre giorni, come fosse morto un capo di stato.
Ovvio che la popolarità di un uomo di tv non è comparabile con quella di un giornalista, per quanto bravo e importante com'era Ostellino.
Però noi liberali forse dovevamo celebrarlo di più, mentre il ricordo di un bravo presentatore, persona sicuramente per bene, ma come ce ne sono per fortuna a decine di migliaia, è esagerato sia divenuto una celebrazione.
E questo lo penso in assoluto, non per un parallelo che non ci sta, anche perché sarebbe uno sgarbo ad Ostellino.
Mi dispiace poi che gli ultimi anni della prestigiosa penna del Corriere della Sera siano stati grandemente amareggiati dal "tradimento" proprio del suo giornale, con il quale non rinnovò il rapporto di collaborazione per avarizia dell'editore.
Le bandiere non esistono più da nessuna parte, però molti hanno del Corsera l'idea, sbagliata, di un giornale "diverso".
Se magari in passato è stato vero, certo ora non più.
Ho trovato sul sito della Fondazione Hume questo ricordo di Dino Cofrancesco dedicato da Ostellino, e lo condivido volentieri.
Grande Ostellino, che la terra ti sia lieve, come scrive sempre in questi casi un altro grande giornalista, Gianni Mura.
Addio Ostellino. Ha fatto del liberalismo una bandiera
di Dino Cofrancesco
Il grande giornalista contribuì a fondare il Centro Luigi
Einaudi. Ha esercitato lo spirito critico su tutto, dall’economia alla
Costituzione
Piero Ostellino sarà ricordato non solo come un grande
giornalista – della razza di Giovanni Ansaldo, Indro Montanelli, Enzo Bettiza,
Alberto Ronchey – ma, altresì, come una delle figure più eminenti del
liberalismo italiano dell’ultimo Novecento. Non a caso nel 2009, a Santa Margherita
Ligure, gli fu assegnato dal Centro Internazionale di Studi Italiani
dell’Università di Genova, il Premio Isaiah Berlin che era stato conferito a
prestigiose personalità della cultura come Amartya Sen, Giuseppe Galasso, Ralf
Dahrendorf, Benedetta Craveri, Mario Vargas Llosa.
Ad assicurare a Ostellino un capitolo importante nella
storia dei difensori della società aperta non sono soltanto i suoi libri, dai
reportage sulla Russia e sulla Cina, dove era stato corrispondente del Corriere
della Sera dal ’73 all’80 – vedi soprattutto Vivere in Russia, del ’77, e
Vivere in Cina, dell’81, entrambi editi da Rizzoli, che nulla hanno da
invidiare alle analisi classiche di Michel Tatu, di Arrigo Levi, di Hélène
Carrère d’Encausse – ai due ultimi, Il dubbio. Politica e società in Italia
nelle riflessioni di un liberale scomodo (Rizzoli, 2003) e Lo Stato canaglia.
Come la cattiva politica continua a soffocare l’Italia (Rizzoli, 2009) – ma,
soprattutto, una particolare cifra pubblicistica che potrebbe definirsi
«liberalismo quotidiano».
Con tale espressione mi riferisco alla vocazione più
autentica di Piero che era quella di mostrare come i liberali classici – da
Montesquieu all’amatissimo David Hume, da Luigi Einaudi a Friedrich von Hayek –
fossero, anche nella società tecnologica di massa, delle guide imprescindibili
per comprendere i vizi e le virtù non degli uomini, ma dei sistemi politici e
degli assetti economici che condizionano, in positivo o in negativo, la loro
vita. In questo era davvero figlio del vecchio Piemonte. Ricordo con quanto
compiacimento mi diceva che, passando da Torino, si era fermato al Ristorante
del Cambio, a Piazza Carignano, quello preferito dal Gran Conte. Quel luogo era
il simbolo dei suoi grandi amori, il Risorgimento – nel quale, a differenza di
tanti suoi amici liberisti, trovava le sue radici – e l’Italia liberale,
appunto, quella che ci aveva ricongiunto, per dirla con Carlo Cattaneo, all’Europa
vivente. Einaudi aveva spiegato che cos’è il liberalismo in economia in
articoli, esemplari per la loro chiarezza, che partivano dal mercatino di
Dogliani per illustrare la complessità dello scambio di beni e di servizi in
una società complessa. Ostellino è andato oltre, ha insegnato a vedere, in una
prospettiva liberale, le più diverse esperienze del vissuto quotidiano.
Non c’è campo, dalla politica al diritto, dall’economia
all’etica sociale, dallo sport al mondo dello spettacolo, dalla religione alla
scienza, che non abbia attivato la sua attenzione e la sua inesausta curiosità
e voglia di capire e di far capire. Col risultato di iscriversi d’autorità tra
gli implacabili dissacratori dei costumi di casa degli italiani, del senso
comune costruito ad arte dagli ingegneri delle anime, dei miti che hanno
segnato la political culture della Repubblica nata dalla Resistenza e
dall’antifascismo. Ostellino non è mai stato tenero con la Costituzione più
bella del mondo. Soprattutto ne Lo Stato canaglia, l’ha definita un «papocchio»
nato da un compromesso tra le due Resistenze, quella democratica e quella
comunista. «Una Costituzione che riconosce i diritti individuali ma li
subordina all’utilità sociale, al benessere collettivo, cioè a una serie di
astrazioni ideologiche che non sono nemmeno affermazioni di carattere
giuridico». Si tratta di rilievi non nuovi, ma Ostellino, sempre
controcorrente, ha accompagnato alla critica liberale della Costituzione la
difesa intransigente di un liberalismo inteso come teorica delle libertà e non
dei diritti, a cominciare dalla libertà d’impresa impensabile senza la
proprietà privata.
«La libertà individuale non può sopravvivere senza la
proprietà protettiva, ma può sopravvivere senza la proprietà produttiva
(capitalistica e di investimento). (…) E ai fini della libertà politica non
occorre il benessere: si può essere liberi in povertà». Sono tesi di Giovanni
Sartori che Ostellino non avrebbe mai potuto condividere. Così come non avrebbe
mai potuto condividere la parola d’ordine «più Europa». La Costituzione proposta
dagli europeisti che «auspicano una severa governance dell’Unione europea che
rimetta in rigo i poco virtuosi stati membri», scriveva otto anni fa,
«ripropone il modello delle Costituzioni programmatiche del Novecento, che non
regolavano proceduralmente poteri e compiti dello Stato, ma si proponevano di
cambiare gli uomini». E cambiare gli uomini era per lui, come per Croce, un
«peccato contro lo Spirito».
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