martedì 7 febbraio 2012

IL DECLINO DI UNA PROFESSIONE: L'AVVOCATURA

Da tempo volevo dedicare una riflessione alla professione dell'avvocato. Forse perché figlio di un Giudice, ho sempre visto la giustizia più dal lato di Tyche che non di Ulisse (questa distinzione, che trovo bellissima, la fece la persona che definisco il mio, ahimé tardivo, maestro : la prima è il "caso divinizzato", che nel mito greco governava la vita, e il secondo è l'UOMO in tutte le sue debolezze ma anche risorse, incarnato meglio dall'avvocato... ).
Calamandrei, Carnelutti, sono nomi di grandissimi avvocati del passato che davano prestigio e lustro culturale e intellettuale alla professione. Oggi è già bene quando ci siano semplicemente bravi e seri avvocati.
L'inflazione gigantesca di legali e cause è un fenomeno troppo noto per dedicarci troppo spazio, limitandoci a pochi numeri....250.000 avvocati, solo a Roma tanti quanti in TUTTA LA FRANCIA. Le Corti Superiori tedesche e francesi hanno un numero di avvocati  Cassazionisti et similia pari alla sola provincia di Rieti (fonte  il chiarissimo Primo presidente della Corte di Cassazione alla recente inaugurazione dell'anno giudiziario).
In tutto questo, invece di introdurre il numero chiuso come a Medicina (dove pare la cosa aver funzionato!), si "liberalizza".....
Il risultato è quello benissimo descritto nella lunga (forse troppo) ma suggestiva e accurata riflessione sull'Avvocatura fatta da Gian Paolo Prandstraller sul Corriere.it.
Una carrellata sul passato, presente e possibile futuro di una professione che oggi credo abbia toccato il punto più basso del prestigio (?) e della remuneratività per la maggior parte dei suoi componenti (al solito, giovani in primis, ma NON solo), ma non lo dite a Befera, che tanto NON ci crede.
Buona Lettura


 Dedico questo articolo alla professione di avvocato di cui constato la profonda depressione e il preoccupante impoverimento. L’epicedio è un canto funebre: spero possa servire per imprimere a tale professione alcuni stimoli di cui, a mio parere, ha bisogno per non essere addirittura travolta.
È inevitabile partire dallo sviluppo della professione, dalla fine della seconda guerra mondiale fino ai nostri giorni. Com’era la professione negli anni ’40-’50, fino alla metà degli anni ’60? Era una forma paternalistico – cavalleresca di cui possiamo cogliere l’essenza nel notissimo film di Pietro Germi, Divorzio all’italiana (1961), concentrando l’attenzione sull’avvocato difensore del protagonista omicida.
L’avvocato vi appare come un notabile socialmente accreditato, sostenuto da una certa cultura classica – di citazioni letterarie farcisce le sue arringhe, di brocardi latini le sue comparse. Adatto alla scena più che al tecnicismo giuridico. Con un po’ di fantasia si può vedere in Francesco Carnelutti un’incarnazione eminente di quel tipo di avvocato: un Carnelutti ammantato d’una veste universitaria di altissimo livello.
Egli imponeva nel processo la propria personalità, lo trasformava in una lezione ai giudici, teneva gran conto per i fini professionali della risonanza pubblica della vicenda oggetto di giudizio. Era scontato che l’avvocato fosse un individualista radicale.
La sua base era lo studio “monocratico” dove lui, e lui solo, regnava sovrano;l’unica organizzazione che si addiceva al suo alto prestigio. Già nella seconda metà degli anni ’60 questo modello entrava in crisi. Il tecnicismo giuridico guadagnava terreno, gli aridi concetti prevalevano via via sulle espressioni immaginifiche.
Per la massa degli avvocati un’evoluzione positiva era resa difficile dalla burocratizzazione dell’apparato giudiziario, dal peggiorato funzionamento del medesimo, dalla pressante richiesta di sintesi nell’esposizione, dalla fretta del giudice. L’avvocato si sentiva escluso da quella “comunità dei giuristi” che era stata per molto tempo una garanzia della “parità” dell’avvocatura rispetto alla giurisdizione, della dottrina rispetto alla giurisprudenza.
Verso la metà degli anni ’60 effettuai la prima inchiesta sociologica sugli avvocati Italiani su un rilevante campione nazionale. Fu pubblicata dalle Edizioni di Comunità col titolo Gli Avvocati italiani. Inchiesta sociologica, nel 1967. Ebbene dall’inchiesta risultò che circa un terzo degli intervistati avrebbe volentieri lasciato la toga in cambio d’un impiego di media remunerazione, che l’82 % circa del campione si era espresso nel senso che la professione aveva perduto prestigio, che il rapporto coi giudici non era soddisfacente.
Complessivamente la professione appariva già distaccata dal modello di avvocato prima corrente, incerta su se stessa, sfasata rispetto ai tempi. Ma negli anni ’60 sbocciava in Italia la cosiddetta società industriale, insieme con quel bisogno di beni materiali e di comodità che è stato il perno essenziale della “società dei consumi”.
Tutto ciò ebbe come riflesso quasi immediato un forte aumento delle cause e, in alcune regioni, la trasformazione dei clienti da individui a imprese. Negli anni ’70 – nonostante condizioni politico-sociali molto travagliate – si ebbe un incremento del lavoro legale (civile e penale) legato anche alla vivace conflittualità, e ciò attenuò la crisi dell’avvocatura.
Quest’ultima mantenne per un certo tempo un prestigio sociale sufficiente a garantirne la desiderabilità come carriera. Ulteriori ragioni dovevano provocare tuttavia una nuova crisi negli ultimi anni ’80 e nel decennio ’90. Era emerso in America un fenomeno del tutto coerente con il capitalismo tecnocratico allora trionfante: l’apparizione d’una nuova organizzazione degli studi sotto il profilo della cosiddetta law firm.
Nel 1964 uscì l’importante volume di Erwin O. Smigel, The Wall Street Lawyeril cui sottotitolo già rivelava le perplessità dell’avvocatura rispetto alle grandi società professionali in America già correnti: “Does large firm bureaucracy breed conformity and stifle creativity in the attorney traditionally a member of a free profession?”.
Smigel metteva allo scoperto l’apparizione d’una mentalità paraburocratica negli avvocati della law firm (le grandi società di professionisti) dotate di sedi sfarzose, organizzazione allargata al territorio, uffici di segreteria specializzati ed efficienti, clientela formata da imprese di grande rilievo economico e perfino politico.
Era chiaro che, posto in tale ambito operativo, l’avvocato non poteva più conservare il vecchio modello paternalistico-cavalleresco del suo ormai lontano predecessore. Sorgevano i problemi propri delle organizzazioni professionali” e tali problemi rendevano superata la tipologia dello studio monocratico, richiedevano cambiamenti nei rapporti tra colleghi, col giudice e ovviamente con il pubblico.
Da noi questa problematica (come quelle analoghe o vicine, riguardanti l’ospedale generale, la scuola, l’università e perfino l’esercito) rimaneva pressoché ignorata.Per cui la figura dell’avvocato restava legata ai vecchi schemi e inadatta a rispondere alle richieste dell’industria; coerente questa con il capitalismo innovativo e aggressivo che – negli anni ’80 – registrava i mutamenti in senso neoliberistico introdotti da Ronald Reagan e Margaret Thatcher.
Mutamenti che riguardavano soprattutto l’apparizione dei servizi come elementi fondamentali dell’economia, e della conoscenza scientifica come mezzo di produzione; con rivoluzione nell’assetto generale del mercato, segnato ora profondamente dai servizi.
L’impatto che ebbe sul mondo avanzato il cosiddetto “postindustriale” fu ignorato dall’avvocatura italiana e quindi anche il modo di esercitare e di organizzare la professione forense secondo nuove forme. Contemporaneamente ricadeva sull’esercizio professionale un’esigenza nel tempo sempre più impellente: quella di ottenere risultati rapidi ed “efficienti” attraverso l’azione professionale.
Si poneva ormai anche per le professioni liberali il problema dell’efficacia – efficienza (cioè la capacità di realizzare gli scopi) che la sociologia dell’organizzazione aveva sollevato e trattato per quanto riguardava altre attività, in particolare quelle burocratiche.
Di fatto l’acquisizione dei risultati veniva rallentata e talvolta paralizzata – nell’attività forense – dall’inerzia e scarsa flessibilità dell’apparato giudiziario dal quale in ultima analisi dipendevano le decisioni sulle domande del pubblico. L’avvocato si trovava di fronte a una struttura incapace di emettere giudizi in tempo rapido.
Tutto ciò è costato caro agli avvocati italiani già di per sé in ritardo nell’organizzazione delle proprie strutture, perché essi venivano privati della possibilità di offrire al pubblico i risultati che questo voleva, e per ottenere i quali s’induceva a promuovere le cause.
A tale inibizione seguiva anche la perdita da parte dell’avvocato della possibilità di svolgere pronte ed efficaci funzioni di consulenza. L’importante settore passava a figure professionali più agili e più vicine alle imprese; in primo luogo quella di dottore commercialista.
Questa giovane professione riusciva – attraverso l’assistenza data al cliente nel delicato settore delle imposte – a stabilire con le imprese rapporti organici di tipo consulenziale e di contrattualistica, lasciando in pratica agli avvocati solo il settore giurisdizionale, cioè le cause dibattute nei tribunali; quelle che per lunghezza, aleatorietà e carico di spese gravavano negativamente sulla professione forense.
A questi fattori certo non favorevoli, s’aggiungeva un aumento abnorme del numero degli avvocati, per cui la professione diventava negli ultimi decenni del XX secolo una sorta di parcheggio per individui aventi in origini altre aspirazioni (per esempio entrare in magistratura, fare il notaio, avere un posto nel sistema amministrativo pubblico, tentare la carriera universitaria, ecc.).
La questione dell’eccessiva numerosità degli individui che aspiravano ad una carriera forense è troppo nota per essere oggetto di nuovi commenti. Ciò che si può dire è che si è trattato per l’avvocatura italiana d’un handicap molto serio i cui riflessi sono stati sofferti dai numerosi avvocati che non riuscivano ad acquisire una clientela sufficiente ad aprire o tenere aperto uno studio.
La crisi economica scoppiata nel 2008 ha inferto alla professione forense un colpo molto pesante, per l’accresciuta esitazione da parte dei clienti ad avventurarsi nelle cause e per la semplice ragione che la professione si è vista prosciugare la liquidità necessaria per pagarne i costi.
* * * In conclusione: la professione di avvocato in Italia sta diventando un problema nazionale, la soluzione del quale si rivela ogni giorno più difficile. Per "salvare" la professione occorre dare agli avvocati una base economica più forte, e ai giovani pulpiti iniziali da cui possano farsi notare per entrare nel foro con speranza d’un guadagno sufficiente.
È inutile illudersi che ciò possa essere fatto in pochi anni. La caduta è così pesante che uno sforzo di tipo meramente istituzionale non sarà sufficiente a produrre effetti salvifici. Occorre un cambiamento di mentalità, di organizzazione e di cultura, appoggiato da una comprensione realistica di quella realtà che porta il nome di capitalismo immateriale. Si dice: basta protezioni, lasciamo fare al mercato!
Ma una professione che non può dare un risultato immediato non riesce ad entrare (seriamente) nel mercato. Per gli avvocati, nelle condizioni attuali, essere nel mercato è cosa che dipende (in larga parte) non da sé stessi, ma da altri.
Perciò gli attori sociali che nei prossimi anni s’impegneranno a disincagliare l’avvocato dalle secche in cui attualmente si trova, dovranno preoccuparsi – prima di tutto – di ottenere o creare per la professione “nuove funzioni”,resecandole (dove?) dal corpo stesso della giurisdizione e dell’amministrazionequesti due ambiti mastodontici e poco operosi, suscettibili oggi di essere migliorati attraverso l’intervento di forze qualificate, di per sé estranee alla loro struttura, ma capaci di gestirne alcuni meccanismi.
La mia proposta è questa: attribuire nuovi compiti agli avvocati, che si aggiungano a quelli attuali. Dare agli avvocati in questo modo lavoro supplementare, che altre forze troppo autoreferenziali non sono più capaci di fare per eccessiva fatica o per altre ragioni.
Agli avvocati spettano a mio avviso proposte di esternazione ed eventualmente di espropriazione, attraverso cui essi possano aumentare il proprio lavoro. Se l' "assetto protetto" della professione è al tramonto, bisogna gestire con intraprendenza un'opzione acquisitiva da cui possano venire le risorse che agli avvocati ormai mancano, perché ad essi è stata lasciata solo la parte più difficile e onerosa del lavoro legale.
Ci vorrà molto tempo e forse – limitando ovviamente il numero degli avvocati, incredibilmente eccessivo – la professione potrà essere riportata a uno stato coerente con il capitalismo di oggi, nel quale gli assetti professionali siano direttamente legati al miglioramento della produzione e alle richieste d’una società che va sempre più verso l’immateriale e il creativo.
 
nuvola.corriere.it
‎[youtube]http://www.youtube.com/watch?v=JXCgfykK7zs&feature=player_embedded#![/youtube]di Gian Paolo Prandstraller Dedico questo articolo alla

Nessun commento:

Posta un commento