Nel parlare delle imprese decotte, dei continui tentativi di salvare l'insalvabile, Giacalone ammonisce: attenzione che quello che non faremo da soli, cercando ammortizzatori utili, domani (non lontano) saremo costretti a farlo costretti dagli altri. E sarà assai più doloroso.
In altre parole, per difendere un indifendibile presente, rifiutiamo sacrifici minori e graduali.
Il futuro sarà meno clemente.
Buona Lettura
Officina reale
Moody’s ha rivisto
al ribasso le stime sulla nostra recessione, collocandola, per quest’anno, fra
il -1,5 e il -2,5%. Non è un dato preoccupante in sé, anche perché erano
sbagliate le stime precedenti (-1%), che noi già davamo come inadeguate. A
febbraio-marzo vedevamo un anno che poteva chiudersi con un -3, sicché non ci
sorprende. Né il prossimo anno si presenta, sempre secondo la medesima fonte,
con il segno positivo, visto che la recessione continuerà in una previsione che
va dalla crescita zero a un -1. Dati, questi, che non devono essere letti per
diffondere il pessimismo e la rassegnazione, ma, semmai, la voglia di cambiare
e la reazione. L’Italia è la terza potenza economica d’Europa, ma la seconda
potenza industriale, dopo la Germania. Quel che allarma non è che la crisi faccia
sentire i suoi morsi, ma che non si presti la necessaria attenzione
all’economia reale.
Mentre la
superfetazione finanziaria mette in pericolo l’economia mondiale, da noi ancora
resiste l’economica reale. I dati sulle esportazioni, relativi al 2011 e al
2012 testimoniano di un’Italia che lavora e che corre, riuscendo a farsi valere
con maggiore dinamicità di quanta ne dimostrino gli stessi tedeschi. Ma il
resto dell’Italia, quella istituzionale e fiscale, sembra volersi accanire
proprio contro quelle fabbriche e quei capannoni che ci consentono ancora di
sedere fra le grandi potenze economiche. Tale condotta autolesionista non si
giustifica con la necessità di garantire la sopravvivenza dello stato sociale,
come molti suppongono, ma con il fatto che la classe dirigente è prigioniera di
gabbie culturali asfissianti. Insomma, sono stati assai più realisti e
pragmatici gli operai della Fiat, che chiamati a referendum hanno compreso le
ragioni dell’impresa. Ma proprio per questo è ancora più devastante e drammatico
che si possa perdere l’industria automobilistica, sempre più spinta ad andare
altrove. E’ più grave perché quel disastro non potrà essere imputato ai
lavoratori o ai loro egoismi, ma a un ecosistema ostile all’impresa.
Leggo, qualche volta
con stupore, i piani di rilancio che il governo presenta. Sono bastati pochi
mesi e l’austero governo dei tecnici s’è lasciato prendere la mano dal più
logoro costume politicante, abbandonandosi agli annunci. Non solo molte cose
sono destinate a restare solo carta, ma parte di quella carta segnala mancanza
di senso della realtà. Prendete le società con un euro di capitale, dedicate ai
giovani (la cui età può arrivare a 35 anni, legificando la morte di diverse
generazioni): dopo avere creato la società, e dopo avere pagato tasse trecento
volte superiori al capitale sociale, che fanno? Nessuno sarà disposto a dar
loro credito e non potranno neanche stipulare un contratto per la fornitura di
energia elettrica. Avranno la partita iva, che sarà certamente una grossa soddisfazione.
Forse sarebbe stato
più saggio aiutarli a trovare capitale di rischio, defiscalizzarne le
iniziative, creare mercato interno (anche mediante esternalizzazioni,
privatizzazioni e liberalizzazioni) favorevole alle loro innovazioni (se ci
sono). Invece s’è imboccata la via contabile, destinata a far aumentare i
disoccupati denominati imprenditori. Grandioso.
Nel frattempo
l’economia reale e produttiva, quella che esporta e ci regge in piedi, non
trova ingegneri che parlino accettabilmente l’inglese e non trova lavoratori
specializzati. Ma trova amministrazioni pubbliche che non pagano le fatture ed
esattori che non hanno la loro pazienza, nell’attendere. In queste condizioni
cosa volete che faccia un’impresa il cui mercato è il mondo? Troverà un’altra
sede nel mondo.
E guardate che non c’è mica bisogno di farsi venire gli occhi a mandorla, perché basta andare in Austria o in Svizzera, in modo da prendere la macchina e tronare a casa per il fine settimana, a mangiare le tagliatelle della mamma. In questo modo l’Italia si deindustrializza esattamente nel momento il cui dovrebbe sacrificare la spesa pubblica improduttiva per facilitare la vita alle industrie.
E guardate che non c’è mica bisogno di farsi venire gli occhi a mandorla, perché basta andare in Austria o in Svizzera, in modo da prendere la macchina e tronare a casa per il fine settimana, a mangiare le tagliatelle della mamma. In questo modo l’Italia si deindustrializza esattamente nel momento il cui dovrebbe sacrificare la spesa pubblica improduttiva per facilitare la vita alle industrie.
Vedo con commozione
quel che succede ai minatori di Sulcis. Assisto con rabbia all’ipocrita solidarietà
che ricevono. Qualcuno, prima o dopo, chiuderà tutto quello che non rende e
campa di sovvenzioni, come il finto mercato dell’energia rinnovabile. Solo che
accadrà quando non si avrà più fiato per creare altro. Quel giorno nessuno sarà
in grado di governare il disfacimento.
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