Sto leggendo il libro di ZIngales, Manifesto Capitalista, che potrebbe piacere ad alcuni miei amici Liberal, come Paolo Cavuto. Non è infatti un inno al liberismo, all'anti Stato, poco a che vedere con l'ortodossia della destra americana del Tea Party. Il chiodo fisso di Zingales è la CONCORRENZA che però deve essere VERA. E quindi lo Stato serve eccome per dettare giuste regole e sorvegliarne l'osservanza contro fenomeni come il TRUST, gli accordi ci cartello. Ugualmente è fondamentale garantire a TUTTI i cittadini un buon grado d'istruzione, stabilendo non già la scuola gratuita o semi indistintamente, che favorisce ingiustamente i più abbienti, che potrebbero pagare i costi effettivi di un buon livello di insegnamento, senza aiutare veramente i giovani di famiglie meno abbienti. Perché alla fine della fiera, con un titolo di carta che vale assai poco, il "ricco" avrà ottenuto la patente burocratica che gli serve , tanto alla sua mediocre preparazione supplirà papà con le sue conoscenze e/o il suo inserimento sociale-professionale, mentre il "povero" si troverà una montagna da scalare senza che quel diploma (di laurea o meno) che stringe nelle mani serva a granché. Non è difficile da capire, eppure....Senza contare che già ora, i veri ricchi o molto benestanti, non ci pensano per nulla a mandare i loro figli nelle scuole pubbliche. Oggi sono tutti bocconiani : il Premier, ma anche i suoi critici principali. Ovviamente la Bocconi è un'eccellente università PRIVATA.
Insomma, il cd.ascensore sociale si basa sul merito e un grado di istruzione alto, che la scuola pubblica non garantisce più (un po' in passato l'ha fatto). E infatti quell'ascensore è BLOCCATO.
Un capitolo a parte Zingales lo dedica al "capitale civico". Il consenso sociale, la condivisione sostanziale delle regole che una comunità si è data. Senza di questo, si possono fare pochi progressi. Non si tratta di eticità , di senso morale che ognuno ha in fondo il suo, anche se poi ci sono ideologie-filosofie (quella hegeiana pare) che pensano si possa imporne uno generale e astratto. Si tratta di VALORI sentiti come COMUNI.
Nel primo anno di Giurisprudenza ti spiegano alcune cosucce utili in assoluto, e non solo per capire il diritto. Una tra queste è che un sistema normativo si regge sul CONSENSO diffuso. In altre parole, fare norme che la gente, la grande maggioranza, disapprova, non sente come accettabili, è non solo inutile ma proprio deleterio : farà perdere autorevolezza allo Stato emanante che a quel punto potrà ricorrere solo al dispotismo , con i rischi conseguenti. Non uccidere , non rubare , non nuocere agli altri, per esemplificare al massimo, sono principi universalmente accettati . E quindi le norme a tutela degli stessi sono condivise e osservate (per lo più) senza bisogno di mettere un poliziotto ad ogni angolo della strada. In società complesse , evolute, le regole da condividere sono di più e quindi la cultura civica deve a sua volta essere maggiore e migliore.
In Svezia, si sa, è molto alta. Da noi è bassa. Dipende dalla nostra storia, fatta di cattolicesimo poco educante (pecca pure, basta che poi ti confessi) e soprattutto poco esemplare per molti secoli, e soprattutto da un paese diviso, occupato, la cui unità, molto recente (appena 150 anni) , è stata caratterizzata da tante contraddizioni ed errori.
Il risultato è un popolo cinico, restio alle regole, anche quelle di base, e che però sta sempre con la mano tesa nei confronti di uno Stato visto come nemico da ingannare e sfruttare, perché lui a sua volta fa lo stesso coi suoi sudditi, nel frattempo chiamati cittadini.
Il cinismo italiano fu oggetto di una acuta lettera di Indro Montanelli indirizzata al premio Pulitzer americano Edmund Stevens che stigmatizzava l'ipocrisia degli americani.
Il grande Indro concordava col suo corrispondente su questo difetto del popolo americano, osservando come però questo fosse male minore rispetto al disincanto e cinismo italico.
Da leggere
MEGLIO L'IPOCRISIA «MADE IN USA» DEL CINISMO ITALIANO
La lezione americana di Montanelli
Una lettera dei primi anni 50 al premio : a confronto le debolezze di due popoli
Caro Edmund,
debbo muovere alcune obiezioni ai tuoi giudizi
sull'ipocrisia americana. Anzitutto, non mi sono accorto che in America
l'ipocrisia sia più diffusa che altrove: in Italia, per esempio. Mi sono
accorto soltanto ch'essa è di diversa natura. Da noi l'ipocrisia non è un fatto
sociale. Appartiene al novero delle iniziative private, e ognuno la esercita
per fini personali. Gl'italiani, per esempio, non si metteranno mai d'accordo
tra loro per sostenere una menzogna utile agl'interessi dello Stato o di una
classe, come succede da voi, dove ogni tanto vengono varate grosse bugie
collettive, cui ognuno si sforza di far finta di credere. Da noi nemmeno la
dittatura fascista riuscì a imporre il conformismo. La gente applaudiva
Mussolini ma non gli concedeva che il minimo necessario per poter continuare a
vivere in pace. Italo Balbo, governatore della Libia, che una volta andai a
trovare a Tripoli, mi disse, accennando alla sua uniforme con camicia nera:
«Vedi cosa mi tocca fare per mantenere la famiglia?». Ed è press'a poco la
stessa risposta che diede il vecchio Rossini al giovane Wagner, che gli
chiedeva come mai aveva smesso di comporre. «Che volete? Prima, quando dovevo
mantenere molti figli, ero obbligato a credere all'importanza della musica. Ma
ora i miei figli son cresciuti e provvedono con i mezzi propri...».
L'ipocrisia in Italia è dettata dal senso dell'«opportuno».
È spicciola, pratica e utilitaria. Quando un italiano vuol cambiare partito,
non fa un esame di coscienza; si limita a un calcolo di convenienza. Una
cinquantina d'anni fa, a Capri, una ricca famiglia inglese si mise in testa di
convertire gli abitanti al protestantesimo. E in un certo senso ci riuscì
perché tutti i neofiti avevano diritto a mangiare gratis. Ma a un certo punto
scoperse che ogni domenica andavano a confessarsi da un prete cattolico che
aveva dato loro il permesso. Frattanto i missionari erano caduti completamente
in miseria, perché i loro seguaci di fede ne avevano poca, ma di appetito
molto. E allora furono gl'«ipocriti» che mantennero loro senza punto
domandargli in cambio la conversione al cattolicismo.
No, una vera e propria ipocrisia in Italia non c'è; ma non
c'è per la ragione molto semplice, e poco nobile, che gl'italiani non hanno un
Ideale. Essi accettano sé stessi. Non si sforzano di essere diversi e migliori
di ciò che sono.
In America l'ipocrisia nasce da questo tentativo. La donna
americana che, prima di fare l'amore con un uomo che non è suo marito, beve, un
po' per stimolare con l'alcol i suoi desideri, ma soprattutto per poter credere
l'indomani di aver agito senza il controllo della coscienza, certo è
un'ipocrita; ma lo è perché ha nell'animo un'idea di onestà e di pulizia da
preservare contro le proprie debolezze.
...........
Voi siete ipocriti anche in politica: quando fate
dell'anticolonialismo, per esempio, voi che siete i figli e gli eredi della più
spietata colonizzazione nella storia del mondo. Il linguaggio che tenete
all'Onu starebbe benissimo nella bocca dei pellirosse; ma in quella di coloro
che sterminarono i pellirosse, permettimi di dirti che stona un po'. Voi
combattete nell'Africa del Nord i francesi schierandovi in favore degl'indigeni
contro i quali essi hanno fatto molto meno di quello che voi faceste contro
gl'indigeni vostri. Ora, è vero, voi trattate i pellirosse molto più lealmente
e umanamente di quanto i francesi trattino gli arabi. Ma è anche più facile,
dopo averli ridotti a una esigua minoranza che, anche completamente parificata
ai bianchi nella legge e nei diritti, non può più far loro nessuna concorrenza.
Voi impedite agli europei di fare, in Africa e in Asia, quello che i vostri
fathers , europei anch'essi, fecero in America. Politicamente, forse, avete
ragione. Ma questo posso dirlo io, compaesano e allievo di Machiavelli, che mi
ha insegnato la distinzione fra la politica e la morale. Tu, no. Per te,
americano, la politica e la morale debbono coincidere. E qualche volta devi
ammettere che coincidono male. Tanto, da farmi ricordare quello che Disraeli diceva
di Gladstone: «Io non gli rimprovero di barare al giuoco: ogni uomo politico lo
fa. Gli rimprovero di dire ch'è stato Dio a infilargli la carta nel polsino».
Eppoi, che importa? Tutta questa ipocrisia «di emergenza»
non impedisce di fatto alla vita americana di essere intessuta di rapporti
umani fra i più semplici e schietti e cordiali del mondo. Io nella «sincera»
Italia non so mai fino a che punto fidarmi di un amico e fino a che punto
diffidare d'un nemico. Qui, invece, lo so benissimo. Quando uno a New York
m'invita a colazione, son sicuro, accettando, di fargli un piacere. A Roma no,
o per lo meno non sempre.
Per concludere, rimango del mio avviso che l'ipocrisia è il
tributo obbligatorio che il Peccato paga alla Virtù. Ma bisogna che questa
Virtù ci sia, perché un popolo le paghi il tributo. In America c'è. È nello
sforzo che ogni americano compie, più o meno in buona fede, per essere
virtuoso. Non sempre ci riesce, ma quasi sempre se lo propone.
In fondo a
ognuno di essi sonnecchia un Jefferson fermamente persuaso che il Bene basta
volerlo per instaurarlo sulla terra.
Noi questa ingenua fede l'abbiamo persa da secoli. E appunto
per questo siamo maturi per diventare la colonia di un popolo puritano,
ipocrita e forte. Se voi continuate a fare gli anticolonialisti, qualche altro
- puritano anch'esso, a modo suo, e certamente più ipocrita di voi - ne
approfitterà.
Pensateci.
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