Bellissimo, per sostanza e per esposizione, l'articolo trovato sul profilo del Maestro Battista e scritto da Mauro Mellini.
L'ho letto nel giorno in cui su Libero era riportata la notizia per la quale PENATI , inquisito per il reato di concussione, avendo espresso l'intenzione di tornare al suo lavoro di professore, ha problemi nel farlo.
Alla sua ex scuola il Preside ha spiegato che i genitori non lo vorrebbero e a quindi chiesto lumi al Provveditorato. Se la notizia è vera (il giornale di Belpietro la posta con stolta soddisfazione) , siamo al delirio !!! In primo luogo il cittadino Penati è INNOCENTE fino a prova contraria . Essere imputato non ha impedito a Vendola (oggi assolto) di continuare a fare il Governatore della Puglia, perché Penati non dovrebbe lavorare ? E questo è assorbente. In più, non è che insegni che so, FIlosofia morale, per cui i genitori si creano il problema del "pulpito". E' un professore di Tecnica. La deriva, il delirio ormai direi, moraleggiante dilaga. Poveri noi.
Ecco perché articolo come quello di Mellini vanno letti e riletti. Confortano quello come me, e forse possono suggerire riflessioni diverse ad altri
Garantista? Sì, tanto
per intenderci
"La presentazione di un libro è quella cosa per la
quale delle persone che non lo hanno letto ne parlano ad altre che non lo
leggeranno“. Lo diceva Paolino Ungari, che molto amava le battute paradossali.
Se non proprio
questo, la presentazione di un libro è quasi sempre una cerimonia in cui delle
persone, che prima lo hanno letto, ne parlano sempre bene, come in un rito
funebre del morto, almeno a voce alta, non
si dice che bene: “de mortuis nisi bonum”.
Le eccezioni,
naturalmente ci sono: a confermare la regola. Questo pensavo sabato scorso
sentendo Giuliano Ferrara alla presentazione, alla Camera dei Deputati, del
libro di Guido Vitiello “Non giudicare – conversazioni con i veterani del
garantismo”. Trattandosi di veterani, il richiamo a quel detto latino era (ed
è) ancor più facile e calzante.
Ferrara, però, al
suo solito, ha rotto la ritualità e la banale ovvietà dell’occasione. Partendo
da una confessione, quella di non potersi considerare garantista, ha posto sul
tavolo il vero problema: si può e si deve parlare oggi di garantismo o di
qualcos’altro?
Essendo, ahimè,
uno dei “veterani” intervistati e conversanti con Vitiello (un letterato acuto
e raffinato che di quell’argomento ha fatto un autentico gioiello) credo di
poter interloquire, anzi, di poter affermare che quel problema me lo sono posto
già molti anni fa, quando ho cominciato a scrivere di “giustizia deviata” e,
poi, di “Partito dei Magistrati”.
Garantismo,
infatti, è concetto che presuppone che il meccanismo giudiziario, in una
dialettica almeno non troppo sgangherata, persegua la sua “naturale” finalità:
accertare la verità dei fatti ed applicare la legge nel modo meglio
corrispondente alla sua lettera ed al suo spirito.
Le “garanzie” (ed
il conseguente “garantismo”) debbono servire, in un contesto di “giustizia
giusta” a sottrarre l’imputato ad un facilmente distorto ruolo di “vittima”
sacrificale, come tale individuato nel momento stesso in cui viene accusato,
per ristabilire l’equilibro tra accusa e difesa ed, anzi, per far sì che esso
non rimanga una proposizione astratta, ma che caratterizzi tutto il processo,
la cui logica esige tale equilibrio.
Ma se oggi di
garantismo si parla come di un “partito”, anzi, come sottolineava Ferrara
l’altro giorno, come del partito dei “colpevoli”, dei mafiosi, dei corrotti è
perché, in realtà, ad esser messo in discussione non è il metodo (quale che sia
“accusatorio” o “inquisitorio”) del processo, e neppure la condizione in cui vi
è posto l’imputato. Il dramma che stiamo vivendo in Italia, ma che, dovremmo
renderci conto, non è solo italiano, è quello del processo penale in sé, che
sempre più frequentemente persegue altro che l’applicazione della legge così
come è stabilita e vigente e la ricerca della verità dei fatti incontestabili.
Sono decenni che qualcuno (tra gli stessi magistrati) predica l’uso
“alternativo” (cioè deviato) della giustizia, l’interpetrazione evolutiva (cioè
la deformazione) delle leggi. E peggio ancora: la rivoluzione per via
giudiziaria, lo “sfascio” di Berlusconi o, magari, di Monti. E poi molte altre
cose: l’esaltazione mediatica dello stesso magistrato inquirente,
l’affermazione del primato dell’ordine giudiziario. E via discorrendo.
Sta di fatto che
oggi in Italia un processo in cui, bene o male (ma più spesso male che bene) si
dibatta veramente di quello che ne appare come l’oggetto, tale secondo le leggi
ed il buon senso, è una mera eventualità.
Né può mai sapersi
se a diventare, in un modo o in un altro, terreno di scontro politico sia,
magari, un caso il più piatto e banale che possa immaginarsi.
Parlare di
“garantismo” di fronte a certi processi è cosa patetica. E chi lo fa, più che
un “veterano del garantismo” rischia, francamente, di passare per un
velleitario o un citrullo.
Se si deve
discutere di un Ingroia, e del suo modo di concepire la giustizia, che
significato ha definirsi “garantista” di fronte alle sue dichiarazioni di principio
ed ai coerenti atti in cui li concretizza nella sua attività di procuratore
“antimafia anti altre cose”?
Se si parla del
“partito dei magistrati” non si può certo contrapporre ad esso un “partito
garantista”. Sarebbe ridicolo.
Io ho conosciuto
negli anni ’50 del secolo scorso un ometto, impazzito perché, avendo sposato
una Tedesca ricca ereditiera, aveva visto il patrimonio di essa, divenuta col
matrimonio cittadina italiana, confiscato dal Governo del Kaiser durante la
Prima Guerra Mondiale. Ed il Governo Italiano, malgrado l’impegno a risarcire,
con quanto ottenuto a titolo di riparazioni di guerra, i cittadini italiani
espropriati, non si dava per inteso a fargli avere una lira. Era un avvocato,
ma si era ridotto a vivere come un barbone, dormendo nei vagoni letto alla
Stazione Termini. Durante l’occupazione Nazista, conoscendo benissimo il
tedesco, si presentò a fare il difensore avanti al Tribunale di guerra
installato all’Hotel Flora a Via Veneto.
Qualcuno
raccontava che avesse fatto delle dotte arringhe per chiedere che i suoi (si fa
per die) difesi fossero fucilati nel petto anziché nella schiena. Tanto i
“clienti” il tedesco non lo capivano.
Voler porre la
questione del garantismo avanti a tribunali obbedienti alla logica del “partito
dei Magistrati” è, più o meno come prodigarsi in arringhe come quelle
compitamente pronunziate da quel poveretto (non so perché ignorato da tutta la letteratura e la cinematografia
relativa a “Roma Nazista”).
Ed allora dovrei
rifiutare la qualifica di “garantista” (magari profittandone per sfuggire anche
a quella, affettuosa ma un po’ fastidiosa, di “veterano)?
No di certo. Tutto
è relativo. Se definirmi “garantista” serve a distinguermi che so, da
Travaglio, da Caselli, e, perché no, da Berlusconi (che garantista lo è, come
diceva Biondi, “a corrente alternata”) per me va benissimo. Se non riesco a far
“passare” qualche altra, e più rilevante ed autentica e meno “accettata”,
opinione, magari sul partito del Magistrati, non è certo perché Vitiello, mio
apologeta, preferisce, anche lui per farsi intendere, definirmi “garantista”.
Si fa quel che si
può.
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