Ho criticato, poco tempo fa, il voto favorevole italiano al conferimento alla Palestina della qualifica di stato osservatore dell'ONU, una sorta di anticamera del riconoscimento di stato membro tout court, non perché sia contrario alla nascita di uno Stato Palestinese a fianco di quello israeliano, ma perché ritengo, come altri del resto, che non era un governo tecnico che poteva effettuare una delicata virata rispetto alla politica estera italiana più recente. Altri paesi, come La Germania e la Gran Bretagna, certo non anti palestinesi, sul tema hanno preferito astenersi , e quello che governi con legittimazione popolare e democratica hanno deciso di fare nella particolare circostanza, a maggior ragione era opportuno venisse fatto da Monti.
Detto questo, ho criticato ancora di più la risposta di Netanyahu che ha dato il là alla realizzazione di non so quanti nuovi insediamenti nelle aree rivendicate dai palestinesi .
Una provocazione ? Una "rappresaglia diplomatica" ? Non saprei dire.
Certo è che quella parte della terra, che raccoglie i luoghi sacri di tutte le religioni monoteiste, sembra maledetta da quel Dio (o Allah che si chiami ) che pure tutti invocano.
In questo senso bello mi è apparso l'artico di un noto giornalista ebreo, Arrigo Levi, che ricorda i tempi della guerra del 1948. Lui c'era. E ci era andato proprio per difendere il neonato stato d'Israele. Rischiando la giovanissima vita in una guerra dalla quale poteva benissimo stare lontano, come tanti altri, ebrei come lui, fecero e fanno. Ecco, Levi ricorda come nel 1948 la famosa risoluzione ONU non dichiarò solo il diritto d'Israele di esistere in quella fascia di terra, ma anche quello della Palestina. Allora gli arabi si ribellarono e scatenarono la guerra, negando questo diritto agli ebrei. Molti di loro lo continuano a fare, ma non tutti. In compenso , di fatto, sono da tempo molti gli ebrei che negano quello stesso diritto alla Palestina.
La questione è assolutamente complessa, e cento anni di morti da entrambe le parti la fa apparire irrisolvibile. Quasi ogni famiglia, da una parte e dall'altra, ha almeno un suo morto in questo interminabile conflitto.
Questo favorisce i partiti radicali, di entrambi i popoli . Ma l'alternativa ad un compromesso di pace è questo alternarsi continuo di morti e tregue precarie ? Oppure , come pensano gli estremisti delle due parti, la scomparsa di Israele o la perenne emarginazione dei palestinesi ?
Mi ha colpito la frase di approccio di Levi, che riporta quella di uno scrittore ebreo di Tel Aviv "E' da quando avevo sei anni che vivo in guerra".
Drammatico
La nascita dello Stato palestinese a garanzia dell'esistenza di Israele
Mi è capitato di leggere un articolo di un israeliano, il
cui titolo («È dall'età di sei anni che sono in guerra») diceva tutta la
stanchezza che non può non prevalere in tanti giovani e meno giovani
israeliani. Non poteva non tornarmi alla mente un momento un po' speciale nella
mia vita - e nella vita dello Stato ebraico. Il 1° gennaio 1948, alle due del
mattino, arrivò alla mia unità, che era la compagnia di genio numero 2 della
brigata del Negev, a cui ero stato assegnato poco dopo il mio arrivo in
Israele, il 28 giugno di quell'anno, la notizia che a Cipro era stata firmata
la tregua fra Israele e i vari Paesi arabi che avevano dato inizio alla guerra
con l'aggressione a Israele, rifiutando la decisione dell'Onu di istituire in
Palestina due Stati nazionali, uno ebraico e uno palestinese, essendo sicuri
che i loro eserciti avrebbero «buttato a mare», rapidamente e senza difficoltà,
ognuno di quei cinquecentomila ebrei che formavano allora tutta la popolazione
d'Israele. Un annuncio ripetuto, convincente e intollerabile, che aveva spinto
oltre a me un certo numero di giovani ebrei della diaspora, non
programmaticamente sionisti, a partire per Israele per arruolarsi.
La notizia ci raggiunse al confine con l'Egitto. Eravamo
rientrati quel giorno da Abu Agheila, la punta avanzata dello schieramento
israeliano, a 36
chilometri sulla strada verso il Cairo, che correva in
quel punto a una trentina di chilometri dal mare. Quella notte, in quel
momento, noi pensammo che la guerra fosse finita, e che Israele avesse vinto la
pace, il diritto di vivere in pace in un proprio Stato, accanto a uno Stato
palestinese. Non soltanto noi al fronte; quella notte, con dilagante
entusiasmo, Israele pensò di aver conquistato il proprio diritto all'esistenza
e si sentì finalmente in pace: dopo la guerra di solito viene la pace. Non
perché pensassimo di esserci sbagliati, ma con un ultimo riflesso condizionato
da militari in uniforme (le uniformi, in verità, non le avevamo avute da molto
tempo: per quasi tutta la guerra ognuno era rimasto vestito così come si era
presentato al momento dell'arruolamento), dopo aver brindato con bicchieri di
succo d'arancia, ripartimmo poco dopo per Abu Agheila, per minare e far saltare
in aria il grande ponte che correva in quel punto su un vasto «vadi». In caso
che gli egiziani, nonostante la tregua, intendessero continuare la guerra: ma
non era possibile. Alle sei di mattina eravamo già di ritorno in patria: lo stesso
giorno, la nostra unità, o forse dovrei dire tutto l'esercito, cominciò a
sfaldarsi. Il nostro bravo tenente se ne tornò a Ramat Gan, dove gestiva un
garage, facendosi vedere di rado. Noi immigrati, che venivamo dai Paesi
dell'Occidente e non eravamo dei sopravvissuti ai gulag, restammo al nostro
posto: anche se al venerdì sera molti di noi andavano a passare il sabato
ospiti di amici, a Tel Aviv o altrove. Israele era un piccolo Paese; quando ci
chiedevamo: tu che farai, finita la guerra? rispondevamo: visiterò Israele. La
controrisposta di rito era: e al pomeriggio?
Non immaginavamo che saremmo
arrivati alla fine della vita senza aver visto la fine della guerra.
Ci
chiediamo: per colpa di chi? Principalmente di quel mondo arabo-palestinese che
(anche se oggi il rifiuto dell'esistenza d'Israele rimane limitato a Hamas e
alla Siria, ma non è dir poco) continua a non accettare non dico lo Stato
d'Israele, ma la nascita dello Stato di Palestina accanto a quello di Israele.
Così, ha forse ragione quel non più giovane israeliano che dall'età di sei anni
sente di vivere in guerra. Di questo, ha un poco di colpa anche quella destra
israeliana, religiosa o ultranazionalista, che invece di cogliere la decisione
dell'Onu di ammettere i Palestinesi, sia pure dall'entrata di servizio, come
l'occasione di iniziare subito un negoziato definitivo di pace in sede Onu
(come suggerisce il presidente Peres), risponde con la tipica cecità di
Netanyahu (ma lui non la considera certo cecità), di prenderne motivo per
costruire nuovi insediamenti in punti strategici, creando una montagna di
ostacoli sulla via del negoziato: di un negoziato che conduca finalmente alla
pace.
Dico questo; anche se sento come sempre in questi casi una
certa riluttanza a criticare Israele. Affiora ogni qualvolta (e le volte sono
state tante) ho sentito non la tentazione ma direi piuttosto il dovere di
farlo. Sono già in tanti a criticare Gerusalemme, a torto o a ragione, è
proprio necessario aggiungere anche la mia piccola fastidiosa voce dalla diaspora?
Prevale la convinzione (l'ho argomentata già qualche decennio fa) che criticare
è giusto, e anzi doveroso quando la critica appare giustificata, nell'interesse
d'Israele. E poi la mia critica sarà non meno irrilevante dell'automatica
alzata di consensi a Israele che viene, come è d'uso, appunto dalla diaspora,
da parte di quella grande maggioranza di ebrei del mondo che non si sono mai
sognati di trasferirsi in Israele, magari anche soltanto per il tempo di
combattere una guerra. Conforta, ovviamente, il giudizio di un grande scrittore
israeliano come David Grossman, che definisce la risposta di Netanyahu «una
reazione prepotente al voto delle Nazioni Unite». Oltre che prepotente, a mio
avviso dannosa per l'interesse d'Israele, che sarebbe, ovviamente, di vedere
nascere finalmente uno Stato palestinese al proprio fianco, a suprema garanzia
della propria stessa esistenza.
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