martedì 22 gennaio 2013

GLI ELETTI SONO TENUTI ALLA FEDELTà AGLI ELETTORI ? IL PROBLEMA DELL'ART. 67 DELLA COSTITUZIONE



Un lettore del Corriere della Sera ha scritto alla Rubrica di Sergio Romano ponendo una questione sulla quale anche io ho sempre avuto molte perplessità, e precisamente la libertà dal mandato conferitogli dall'elettore del parlamentare eletto . Insomma, ti chiedo il voto, tu mi voti, poi però io faccio come mi pare, eventualmente non mi rivoterai la prossima volta...
Non mi sembra una gran cosa, eppure è prevista dalla nostra Costituzione, all' art. 67.
E infatti  nel Parlamento assistiamo alla compravendita dei parlamentari, il cd. "mercato delle vacche", di cui tutti s'indignano se le vacche rubate sono le "proprie", ma quando si passa dall'essere derubati ai ladri, allora la morale non vale più. E sì perché la transumanza è fenomeno che ha sempre riguardato trasversalmente il Parlamento, toccando numeri inimmaginabili durante la Seconda Repubblica.
Sergio Romano , opinionista prestigioso con il quale scopro di essere spesso in disaccordo, a volte anche in modo radicale, risponde con delle osservazioni sulle quali in effetti riflettere . Uno dei fenomeni a cui si è assistito per esempio nell'ultima legislatura è stata la diaspora di Fini e dei suoi dal PDL, con crisi sostanziale, ancorché non Parlamentare, visto che Berlusconi e Lega pur persi i Finiani riuscirono a mantenere una risicata maggioranza alla Camera (più solida la situazione al Senato ) , dell'ultimo governo presieduto dal Cavaliere.
Chi "tradì" ? Apparentemente Fini, che si era messo a fare l'opposizione interna con il  proposito di voler rovesciare la maggioranza nelle cui liste pure era stato eletto. Però quest'ultimo si è sempre difeso dicendo che era stato Berlusconi, con la sua politica troppo sbilanciata a favore della Lega, ad aver tradito il programma originario del PDL....Nella fattispecie citata, francamente la parte del Giuda mi viene da attribuirla all'attuale Presidente della Camera, però la questione non è pacifica. Ma facciamo un altro esempio ancora : il governo tecnico voluto da Napolitano. Quale parlamentare era tenuto a votarlo , visto che nessun elettore era stato chiamato a pronunciarsi su tale eventualità ?? O ancora, uno che vota alle prossime elezioni Vendola e si ritrova con quelli di Sel che votano, per lealtà al patto elettorale sottoscritto, misure di politica economica - sociale del tutto opposte a quelle proprie di quella formazione politica ?
Non a caso, vista la chiara prospettiva elettorale, con il ticket Monti - Bersani al governo prossimo venturo, i numeri di SEL nei sondaggi stanno diminuendo e sono in crescita quelli di Rivoluzione civile di Ingroia, dove si è coalizzata tutta la sinistra più radicale e dichiaratamente comunista. Il Deputato in questi casi che fa ? A chi deve la sua fedeltà ? alla propria coscienza, al partito-lista che lo ha fatto eleggere, agli elettori ?
Però in altri paesi l'unica soluzione non è quella prospettata, e che mi pare di capire la sola che vede Romano : non rivotare chi non ha mantenuto gli impegni elettorali...In America per esempio se i cittadini della circoscrizione del seggio nel quale il rappresentante è stato eletto raggiungono un numero sufficiente di firme, possono sottoporre a referendum (da tenersi nella stessa circoscrizione) la conferma o meno del politico eletto e che si assume abbia tradito gli impegni elettorali fatti. Insomma un redde rationem che potrebbe arrivare prima della scadenza del mandato. Non mi pare male.
Buona Lettura


RIBALTONI E VOLTAGABBANA SE LA COSTITUZIONE LI PERMETTE

In questo periodo si parla tanto di Costituzione. Qual è il suo pensiero in merito all’art. 67 della Costituzione, che recita: «Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato»? A me sembra un obbrobrio. A parte il fatto che, come dice la stessa Costituzione, la sovranità appartiene al popolo (di conseguenza ogni membro del Parlamento che non si immedesimi nei propri rappresentati dovrebbe dare le dimissioni e «non remare contro» andando a rimpinguare le fila del gruppo avverso a quello di provenienza), è disastroso concedere un così ampio mandato a personaggi che sempre più spesso mirano la propria «attività politica» al perseguimento di obbiettivi personalistici, non certo a favore della società. Non mi sfugge comunque il fatto che concepire una riforma dell’articolo in questione non sarebbe cosa facile essendo, per esempio, estremamente lieve il confine fra quelli che sono gli atti che rientrano, e quelli che non rientrano, nel mandato ricevuto dagli elettori. Credo la questione sia davvero importante e urgente soprattutto nell’ottica di riuscire a trasformare quella che oggi viene definita una vera e propria «casta». 
Paolo Conti


Quando la bozza dell’articolo fu proposta a una sottocommissione dell’Assemblea costituente, nessuno contestò il fondamento della norma. Tutti i partiti erano convinti che il «mandato imperativo » (con cui vengono fissati i limiti della delega conferita dagli elettori ai loro rappresentanti), appartenesse alle tradizioni dell’Ancien Régime e favorisse i rapporti clientelari del deputato con gli interessi dei notabili del suo collegio. Vi fu persino un membro della sottocommissione (il comunista Umberto Terracini) per cui l’articolo, in un sistema contraddistinto da grandi partiti e leggi elettorali proporzionali, era persino inutile. Terracini pensava evidentemente che il sentimento di appartenenza al partito avrebbe prevalso su qualsiasi sollecitazione localista e clientelare. Ma un liberale, Aldo Bozzi, sostenne che il silenzio avrebbe creato ambiguità e malintesi. Per evitare equivoci, quindi, era meglio dire esplicitamente che il deputato rappresenta la nazione «senza vincolo di mandato». L’accordo fu pressoché unanime. Soltanto un altro membro comunista, Ruggero Grieco, ebbe qualche perplessità a proposito delle parole «senza vincolo di mandato». Il mandato c’era, secondo Grieco: era il programma con cui il partito aveva chiesto il voto degli elettori. Capisco i suoi sentimenti, caro Conti, perché immagino che lei giudichi l’art. 67 alla luce di ciò che è accaduto nel Parlamento italiano, soprattutto negli ultimi vent’anni: ribaltoni, compravendita di deputati e senatori, lealtà offerte al migliore offerente. Molti di questi fenomeni sono dettati da uno sfacciato opportunismo. Ma vi sono altri fattori di cui occorre tenere conto. In primo luogo i partiti hanno perso gran parte della loro originale coerenza ideologica e sono diventati formazioni liquide, amebe che si dividono e si ricompongono. In secondo luogo i programmi sono agende di buone intenzioni che ogni governo, soprattutto in una fase di gravi crisi economiche e finanziarie, deve adattare alle circostanze o addirittura tradire. A chi dovrebbe restare fedele un deputato se il suo partito ha promesso la riduzione delle tasse e ha formato un governo che non mantiene l’impegno? Non basta. Se la lealtà è dovuta al capo del partito, come nel caso di Silvio Berlusconi, che cosa dovrebbero fare quei deputati (non molti purtroppo) a cui non piace votare per leggi ritagliate sugli interessi del leader? L’art. 67 è invecchiato anche perché il concetto di nazione è molto più sfuggente e opinabile di quanto fosse nel 1948. Ma per cambiare la norma di una costituzione è meglio avere idee chiare su quella che dovrebbe sostituirla. 
Sergio Romano 



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