Sono orgoglioso di condividere quasi sempre le analisi del prof. Panebianco, storica e brillante penna del Corriere della Sera. Del resto, la comune matrice liberale facilmente doveva portare a questo. Però , così come ci sono tanti socialismi, ugualmente ci sono molte anime liberali. Ecco, io e il Professore sembra si appartenga alla stessa. In comune, tra l'altro, abbiamo anche una certe fiducia e speranza nel personaggio Renzi, che però si sta man mano intaccando. Il Renzi della Leopolda , della sfida ai leader datati con la violenta proposta - provocazione della "rottamazione", del duello perdente ma coraggioso contro Bersani alle primarie, rivela tatticismi eccessivi e molto politichesi. Oltretutto facilmente perdenti.
La sorpresa negativa per me è stata la candidatura di Prodi a Presidente della Repubblica. Marini no, Prodi sì. Perché ? Prodi è "antico" tanto quanto se non di più. Oltre ad essere malvisto da Berlusconi e dal centrodestra che meriti aveva l'ex leader dell'Ulivo ? Diranno, i sinistrorsi, "ti pare poco ?" In effetti non lo sarebbe, dal loro punto di vista, però Renzi si è sempre sottratto al giochino di prendere voti soffiando sull'antiberlusconismo...settore peraltro intasato. La sua originalità è anche in questo. Dunque ?
Poi, nei passaggi televisivi....dove sicuramente ha una verve e uno spirito che lo rendono più accattivante dei concorrenti, ormai ripete sempre le stesse cose. E' inevitabile ad un certo punto...alla fine le sue idee sono quelle e non è che per il piacere della novità ne può inventare altre . Il problema è che siccome NON è in grado di FARE, perché finora o ha perso dove ha , sia pur gagliardamente, partecipato, oppure non ha gareggiato proprio, e quindi, tranne che a Firenze, non occupa ruoli operativi. E Panebianco gli rimprovera questo : la sua astensione dalla corsa alla segreteria del partito democratico, per cercare di riprendere il discorso veltroniano, archiviato negli anni della segreteria bersaniana, e portarlo a termine. Fare del PD una forza definitivamente riformista, che rinunci una volta per tutte al massimalismo, affrontando con coraggio il rischio, probabile, di una scissione. Accettare una volta per tutte che c'è più possibilità di una intesa governativa con il centro moderato e liberale che con quelli che soffrono di nostalgie post comuniste.
Per fare questo, Renzi deve diventare segretario, se no farebbe la fine di Prodi, leader di una coalizione ma non sostenuto da un suo partito e una sua organizzazione. La stessa fine la farà Monti, nelle stesse condizioni.
Ieri Crozza, che non ama Renzi, nella sua trasmissione su La 7, ha fatto questa battuta : Matteo corre il rischio di essere il più giovane bollito d'Italia.
Come Panebianco, spero vivamente di no, ma comincio a temere che abbia ragione il comico
CASO RENZI E FINANZIAMENTI PUBBLICI
Sguardi rivolti al passato
Matteo Renzi avrebbe potuto essere - e potrebbe essere ancora, se commettesse meno errori - la novità della politica italiana. È l'unico che, sulla carta, possiede il carisma per riassorbire la sfida grillina, l'unico che potrebbe impedire lo sfaldamento del Partito democratico e la conseguente affermazione di un inedito bipolarismo fra i 5 Stelle e il centrodestra. E' l'unico che potrebbe, per la prima volta nella sua storia ultrasecolare, dare una identità stabilmente riformista a una sinistra da sempre condizionata, quando non dominata, da correnti massimaliste.
Le condizioni sono cambiate rispetto a quando, solo pochi mesi fa, Renzi sfidò Bersani nelle primarie. Allora il Pd era ancora un partito sicuro di sé, orgoglioso delle proprie radici, di una storia che risaliva alla Prima Repubblica.
Un partito che, con la segreteria Bersani, aveva messo brutalmente da parte, trattandolo come un mero incidente di percorso, il tentativo di Walter Veltroni, primo segretario del Partito democratico, di introdurre una certa discontinuità e un po' di innovazione nella sinistra italiana. In quel momento i sondaggi davano ragione a Bersani e alla sua linea all'insegna della continuità con il passato. Renzi, vissuto dai militanti come un corpo estraneo, e una minaccia alla tradizione e alla loro stessa identità, e percepito dall'apparato di partito come un pericolo mortale, non avrebbe potuto vincere quelle primarie neppure se le regole elettorali fossero state per lui meno penalizzanti.
Lo scenario ora è assai diverso. Il partito è a pezzi, vicino all'implosione. Adesso sì che Renzi potrebbe prenderselo, sicuro di essere accolto come un salvatore anche da molti di coloro che, all'epoca delle primarie, lo trattavano da «destro», da «berlusconiano». Come tutte le organizzazioni anche i partiti, quando è a rischio la loro sopravvivenza, sono pronti a gettarsi fra le braccia di un messia che mostri di conoscere quale sia la via d'uscita dall'inferno. Se non ora quando?
Ma Renzi, incomprensibilmente, non ci sta. Si dichiara non interessato alla leadership del partito. In molti lo abbiamo ascoltato con una certa curiosità alcuni giorni fa a Porta a Porta . Il suo eloquio brillante e veloce non riusciva a nascondere la debolezza della sua posizione. Ad esempio, non puoi dire che non conta chi controlla il partito ma conta che il partito non sia autoreferenziale (come spesso accade ai partiti caratterizzati dalla presenza di consistenti apparati) e che, pertanto, per rinnovarlo, occorra eliminare il finanziamento pubblico. Non puoi dirlo senza cadere in una vistosa contraddizione. Il finanziamento pubblico, grazie al quale si sono fin qui riprodotti gli apparati, si mantiene per il fatto che quegli apparati riescono di solito a procurarsi leadership compiacenti, che li tutelino. Se vuoi ridimensionare l'apparato (che consideri una causa dell'autoreferenzialità) eliminando il finanziamento pubblico, devi impadronirti del partito. Probabilmente lo si vedrà fra breve, quando cominceranno le sorde resistenze parlamentari contro la proposta del governo tesa ad abolire il finanziamento pubblico.
Il Partito democratico è, soprattutto, la sua segreteria e la sua tesoreria. Se non ti prendi segreteria e tesoreria sei destinato a contare poco o nulla.
È singolare che una leadership che si presenta come innovatrice si saldi poi a una strategia che fa tanto Prima Repubblica. Una strategia del tipo: a me il governo, a voi il partito. Come nella vecchia Dc: la segreteria all'esponente della fazione A, Palazzo Chigi all'esponente della fazione B.
Si noti la differenza fra la posizione di Renzi oggi e quella che fu di Romano Prodi negli anni Novanta, ai tempi dell'Ulivo. Prodi fu il candidato al governo di una coalizione i cui partiti egli non controllava. Ma Prodi era giunto a quella posizione «dall'esterno», non veniva (a differenza di Renzi) da battaglie condotte dentro il principale partito della coalizione. Era un uomo allora spendibile contro Berlusconi per il suo profilo di tecnico di area con un prestigio acquisito nei posti di responsabilità occupati. E in ogni caso, con l'Ulivo, Prodi riuscì a essere, per un certo periodo, il leader di governo più adatto per la sinistra nella (allora) nuova età bipolare.
Renzi ha tutt'altra storia (viene dalla politica di partito) e agisce in tutt'altra congiuntura. Una congiuntura nella quale non c'è più la coalizione che sorresse Prodi, e in cui il rischio che si corre è quello del definitivo ritorno (ma senza più i solidi partiti di allora) alle logiche politiche da Prima Repubblica. L'attuale strategia di Renzi, se non cambierà, sembra fatta per contribuire a quel ritorno, non per impedirlo.
Forse serve altro. Serve un Renzi che (come fece il suo modello Tony Blair) si impadronisca del partito, lo trasformi, anche a costo di pagare il prezzo di una scissione a sinistra, per farne il docile strumento di una politica innovatrice, e dopo (e soltanto dopo) si candidi alla guida del governo. Oltre a tutto, tale scelta sarebbe la più coerente con la suggestione maggioritaria e presidenzialista («eleggiamo il sindaco d'Italia») che Renzi accarezza. L'errore, se di un errore si tratta, sta nel contrasto fra il messaggio e la strategia, fra ciò che Renzi propone e ciò che fa (o non fa). Nell'Italia dei mille paradossi accade spesso che il ritorno al passato venga spacciato per una grande novità. Sarebbe una occasione sprecata, e non solo per il Pd, se, alla fine, dovessimo archiviare sotto questa voce anche il caso di Matteo Renzi.
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