Fa inevitabilmente piacere ritrovare in contributi più autorevoli concetti espressi tante volte su questo Blog. Proprio recentemente, parlando del delicato tema dell'Amnistia e dell'Indulto avevo ripreso i concetti di Filippo Facci e Davide Giacalone, che fanno considerazioni simili, partendo da fatti oggettivi, arrivando a conclusioni diverse : per il primo la situazione è arrivata ad un punto tale che non si può aspettare nemmeno l'avvio di riforme, pure sacrosante e indispensabili, della giustizia, le carceri vanno deflazionate ORA e quindi è adesso che si deve adottare il provvedimento di clemenza ; per il secondo è inutile passare stracci sul bagnato se si continua a non chiudere la falla, con la sola conseguenza che da qui a poco tempo ci ritroveremo con le carceri di nuovo piene (sempre successo così).
Avendo ragione entrambi, forse bisognerebbe arrivare ad una sintesi e quindi adottare sì il provvedimento di condono, ma allo stesso tempo almeno ritoccare due, tre leggi in attesa di una più ampia riforma. Nel mirino ci sono la Bossi Fini, la Giovanardi Fini (magari è contento l'ex presidente della Camera di vedere tornato il suo nome sui giornali, sia pure associato a leggi fortemente criticate e di scarso successo) e anche la custodia cautelare.
Su quest'ultima inutile continuare a dare fiducia al buon senso dei giudici, esortato vanamente dalla Cassazione ad usare questo strumento per quello che è : assolutamente ECCEZIONALE, essendo giustificabile la restrizione della libertà individuale SOLO DOPO una condanna definitiva.
Parole rimaste vane se tuttora oltre un terzo dei detenuti sono in attesa di questa pronuncia e molti addirittura della prima !
Bisogna quindi essere espliciti e restrittivi : stabilire per legge quali reati, per la loro gravità sociale, giustifichino l'estrema razio di una detenzione senza processo (o giudizio inappellabile) e per il resto NADA, niente, nessuna tentazione di giustizia anticipata o di facile popolarità sui giornali grazie ad un pubblico tendenzialmente forcaiolo. Questi reati sono facili da individuare e lo scrivemmo nel post http://ultimocamerlengo.blogspot.com/2013/10/renzi-parte-da-bari-era-meglio-quanto.html : terrorismo, mafie, rapine e i reati dove vi sia violenza sulle persone. Stop. Per tutto il resto si aspetta il processo, e se proprio ci sono motivi altri e gravi che supportino una misura cautelare, questa potrà essere la diffida a determinate condotte, il braccialetto elettronico, gli arresti domiciliari. In caso di inosservanza, allora si prenderà in considerazione anche il carcere.
Solo questa misura, oltre ad essere nel segno della Costituzione e delle finora vane raccomandazioni della Suprema Corte, porterebbe a carceri non più sovraffolate. Renderle poi umane, è un'altra cosa, ma almeno un passo importante sarebbe stato fatto.
Bene, Valerio Spigarelli, Presidente dell'Unione Camere Penali, si concentra su questo fondamentale tema, con una analisi sintetica ed efficace di temi noti a chi si interessa di questa questione.
Non molti, perché i più sono convinti che a loro non toccherà mai, sbagliando. Perché ormai non si contano più i casi di persone normalissime, che si sono trovate a passare decine di giorni in carcere, prima di essere liberati per la loro assoluta innocenza, per questa sindrome delle manette facili (bella l'altro giorno la lettera al Corsera di uno di questi ultimi, detenuto a San Vittore per 42 giorni : http://ultimocamerlengo.blogspot.com/2013/10/eroe-per-caso-no-detenuto-per-sbaglio.html).
E i reati che Spigarelli elenca, quelli ai quali limitare la possibilità di un carcere preventivo, sono appunto quelli sopra scritti. Perché quelli devono essere.
E basta.
Ma la riflessione di Spigarelli è più profonda, investe il delicato problema del giudice veramente terza parte del triangolo del processo, e quindi la solita questione della separazione delle carriere.
Da leggere.
Abuso indiscriminato della custodia cautelare
Così i giudici tradiscono la Costituzione
E’ ormai entrato nel lessico il termine abuso della custodia cautelare, utilizzato sia a destra che sinistra, e perfino – se non il termine perlomeno la nozione – da chi del fenomeno dovrebbe esserne ritenuto primo responsabile, cioè la magistratura. Sono ormai passati un paio d’anni, infatti, da quando l’allora Primo Presidente della Corte di Cassazione, Ernesto Lupo, dichiarò testualmente: «È necessario che il legislatore assuma sul serio la natura di extrema ratio della custodia in carcere… e la preveda soltanto in presenza di reati di particolare allarme sociale, e, soprattutto, la inibisca quando la condotta criminosa presa in considerazione sia risalente nel tempo e non accompagnata da manifestazioni concrete di attuale pericolosità sociale. La questione chiama ovviamente in causa anche i giudici. Il difetto endemico del nostro sistema, a causa dell’eccessiva distanza temporale tra condanna ed esecuzione della pena, comporta sovente la spinta ad anticipare, in corso di processo o di indagini, il ricorso al carcere al fine di neutralizzare una pericolosità sociale, anche se soltanto ipotizzata, al fine di offrire una risposta illusoriamente rassicurante alla percezione collettiva di insicurezza sociale, che finisce così con il contagiare l’ambito giudiziario, determinando guasti sulla cultura del processo e delle garanzie».
Un’affermazione molto più forte di quel che il lessico giuridico lasci trapelare e, forse, anche di quel che il prestigioso magistrato fosse disposto ad ammettere, giacché in tal guisa si denunciava l’applicazione di una forma, incostituzionale, di detenzione anticipata rispetto alla condanna definitiva. In effetti, è proprio quel che avviene nei nostri tribunali: lungi dall’applicare il concetto che la privazione della libertà sia un evento eccezionale, la giurisprudenza la utilizza in funzione di difesa sociale; cioè non perché sussistano nel caso specifico le esigenze che il codice prescrive (rischio di inquinamento delle prove, di fuga, o di reiterazione di reati particolarmente gravi da parte del condannato) bensì per far scontare in anticipo quella che (potrebbe) essere la sanzione finale, nel timore che l’inefficienza del sistema ne vanifichi l’applicazione. Insomma, “pochi maledetti e subito” – come voleva il motto dei bottegai romani del secolo scorso – mesi o anni di custodia cautelare nel dubbio che la sanzione definitiva resti virtuale. Questa analisi, anche se in maniera inconsapevole da parte dei molti che l’avanzano, dimostra, però, anche un’altra cosa rispetto alla scarsa sensibilità verso la legalità costituzionale che contiene.
Ragionando in tal modo la giurisprudenza, infatti, svela anche un suo squilibrio genetico: non dovrebbe essere il mestiere del giudice (delle indagini preliminari o del dibattimento) preoccuparsi dell’eventualità che il sistema si dimostri inefficace. Chi giudica dovrebbe avere a cuore la legalità del processo e non altro. Se un giudice (o meglio la stragrande maggioranza dei giudici) è così sensibile alle esigenze di difesa sociale, tanto da arrivare ad una pratica che stravolge i principi costituzionali, è perché si sente istintivamente, culturalmente, giuridicamente, più vicino alle istanze di difesa sociale di cui è portatore il pm rispetto a quelle di tutela del diritto del singolo di cui è latore il difensore. E’ questo il punto su cui bisogna intervenire, ma per farlo occorre rimettere la figura del giudice al centro del triangolo ideale del processo, tra accusa e difesa. Un giudice terzo, che pesa i diversi interessi, non un collega del pm nell’amministrazione della giustizia per ciò solo sbilanciato come è ora. Se non si elimina questa confusione concettuale, attraverso una vera e significativa separazione delle carriere, nessun intervento sulle norme del codice sarà efficace, perché le norme stesse, come già avviene oggi, saranno aggirate.
Bisogna poi corroborare in maniera significata un’altra scontata verità che la legge proclama e la prassi elude: custodia cautelare, vieppiù in carcere, solo come extrema ratio. Anche in questo caso un comando già previsto che viene eluso. Ed allora occorre che la legge sia ancor più chiara, escludendo il carcere se non per un pugno di reati che per il carattere permanente (associazioni per delinquere di stampo mafioso etc) o per l’estrema pericolosità (fatti commessi con violenza sulle persone) possono giustificare il sacrificio della libertà anche in un fase precedente alla condanna definitiva. Anche qui, però, rinunciando alle presunzioni anticipate ma verificando caso per caso la sussistenza delle esigenze cautelari. Per tutti gli altri reati bastano ed avanzano gli arresti domiciliari, le misure interdittive, i divieti di soggiorno e di residenza, eventualmente rinforzati e resi più efficaci. La politica sarà in grado di farlo? Gli intellettuali si sporcheranno le mani su questo tema? E la stampa avrà la forza di parlarne senza pensare alla tiratura?
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