100.000 cristiani in fuga. Insieme a loro gli iracheni di religione sciita, che i Jidaisti di ISIS sono sunniti. E, al solito, l'assoluta incapacità degli eserciti regolari di difendere la popolazione , oltre che le città e il territorio nazionale, dalla furia degli estremisti islamici.
Quindi viene chiesto aiuto agli americani, i diavoli stranieri che però tornano comodo quando c'è da combattere nemici che si mostrano sempre più determinati e quindi più forti.
Ma ad Obama questa cosa proprio non va giù, che lui lo sceriffo del mondo non lo vuole fare, e dopo 10 anni di guerre non vinte, nello stesso Iraq e anche in Afghanistan, gli americani sono stufi.
Certo, nel mondo globale, dove le immagini delle persecuzioni, delle popolazioni sfollate e in pericolo, arrivano in tempo reale, chiudere gli occhi non si può. Abbandonare questa gente diventa frutto di una decisione consapevole, ché finta di nulla non si può fare.
Allora si scelgono vie di mezzo, come il bombardamento dal cielo dei persecutori, confidando soprattutto sui droni, in modo da non correre il rischio di perdere preziosi piloti (e aerei ! ) e paracadutando aiuti alimentari e di altro genere ai profughi.
Meglio di niente, ma sicuramente non bastante a fermare gli islamisti.
Il comandante riluttante non aveva scelta
Criticato per il ritiro frettoloso del 2011,
OBAMA promette un’azione limitata
DAL NOSTRO INVIATO NEW YORK — I generali del Pentagono che descrivono minuziosamente caratteristiche e limiti del bombardamento delle postazioni dell’Isis in Iraq. Il portavoce della Casa Bianca, Josh Earnest, che si sofferma a lungo sui motivi - la difesa degli interessi americani e dei cittadini Usa a Erbil, la capitale curda sotto attacco, oltre all’intervento umanitario per evitare lo sterminio della minoranza Yazidi — che giustificano l’intervento americano. E, poi, lo stesso presidente che, cupo, spiega agli americani perché non aveva altra scelta quando ha autorizzato le incursioni aeree e promette che l’azione militare sarà molto limitata, senza coinvolgimento di truppe di terra.
Tutto, in questa nuova pagina del coinvolgimento degli Stati Uniti nei conflitti mediorientali, mostra che Barack Obama si trovi costretto a dare via libera ad un intervento che è contrario a tutta la sua impostazione strategica. E che, dicono i suoi avversari, si è reso necessario proprio per gli errori da lui commessi quando, nel 2011, ha ritirato il contingente Usa dal Paese invaso da Bush nel 2003.
Ovviamente per i democratici l’errore è stato proprio quell’invasione che, tolto il tappo-Saddam Hussein, ha aperto le porte dell’Iraq prima ad Al Qaeda, poi ad altri gruppi di terroristi. Secondo molti analisti, però, una volta subentrato a Bush alla Casa Bianca, Obama è stato frettoloso e superficiale nel ritiro: ansioso di rispettare la sua promessa elettorale, non si è reso conto che il sistema di accordi coi gruppi sunniti, faticosamente convinti dai comandanti americani a non schierarsi con Al Qaeda contro il governo a maggioranza sciita di Bagdad, sarebbe franato dopo il ritiro del contingente Usa.
Adesso non c’è tempo per le recriminazioni: Obama deve trovare una strategia che, incalzano i repubblicani, non può essere solo quella umanitaria. Ma quello che più volte abbiamo descritto in passato come un «guerriero riluttante», stavolta sembra addirittura recalcitrante. Costretto a ordinare un intervento che percepisce come una possibile trappola: un’azione che, comunque vada, gli provocherà problemi aggiuntivi. Il presidente ha agito perché, a differenza di giugno, quando rifiutò l’appoggio militare chiesto da Al Maliki, non aveva altra scelta. Ma non ha alcuna intenzione di allargare il conflitto per motivi militari e politici, sia interni che di rapporti coi Paesi mediorientali.
La prima considerazione, la più banale, riguarda la sicurezza dei velivoli americani impegnati nelle operazioni di soccorso — i cargo che hanno paracadutato rifornimenti sugli assediati — e nei bombardamenti. Non a caso fin qui sono stati usati solo due F-18 della Navy decollati da una portaerei, oltre un drone, cioè un aereo senza pilota: gli americani temono che l’esercito del «Califfato» disponga di pericolosi missili antiaerei. Loro non ne hanno forniti all’esercito iracheno, che, in fuga davanti all’avanzata dell’Isis, ha lasciato indietro i suoi equipaggiamenti. Ma il Pentagono non sa se i ricchi Paesi petroliferi del Golfo che stanno aiutando l’autoproclamato Stato dell’Iraq e del Levante, gli hanno fornito anche efficaci armi antiaeree. Il secondo motivo è l’ostilità della grande maggioranza degli americani a ogni nuovo coinvolgimento militare in conflitti mediorientali e nell’Asia centrale. Dieci anni di guerre in Afghanistan e Iraq hanno profondamente segnato la psiche di questo popolo.
Quanto alla situazione politica in Iraq e nel Medio Oriente, è evidente la preoccupazione di Washington di non dare eccessiva consistenza a un intervento militare che accentuerebbe l’ostilità dei sunniti nei confronti degli Usa. L’Isis rappresenta una minaccia enorme: «La campagna di terrore contro innocenti, incluse le minoranze yazidi e cristiane, hanno tutti i segnali e gli elementi caratteristici del genocidio», ha detto il segretario di Stato John Kerry. Un «genocidio» che va evitato a tutti i costi, questo è certo. Un concetto ribadito anche dal vicepresidente Joe Biden durante un colloquio telefonico con il neo eletto presidente iracheno, il curdo Fouad Masum.
Ma gli analisti del governo Usa riflettono sull’enorme sostegno di cui ormai godono le bande dell’Isis in un Paese nel quale i sunniti si sentono schiacciati tra il governo sciita di Bagdad e i curdi. Bombardare significa facilitare il proselitismo del Califfato. L’unica soluzione sarebbe quella della creazione di un nuovo governo multietnico a Bagdad. Non a caso anche ieri la Casa Bianca ha insistito molto su questo punto. Ma sono mesi che la sua diplomazia batte sulla questione senza aver ottenuto, fin qui, risultati significativi.
Massimo Gaggi
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