martedì 5 agosto 2014

ADRIANO SOFRI INVIATO SPECIALE A GAZA


Prosegue la raccolta di documenti, testimonianze e commenti diversi sul dramma arabo israeliano. 
Dopo le lettere di pacifisti israeliani http://ultimocamerlengo.blogspot.com/2014/07/gli-israeliani-divisi-da-sempre-sul.html  ; http://ultimocamerlengo.blogspot.com/2014/07/i-moderati-di-israele-piangono-per-i.htmlhttp://ultimocamerlengo.blogspot.com/2014/08/amoz-os-la-differenza-tra-un-pacifista.html   (vi assicuro che non è colpa mia se non ne trovate di pacifisti palestinesi, giusto una intervista di un abitante di Gaza contro Hamas... http://ultimocamerlengo.blogspot.com/2014/07/noi-palestinesi-ostaggi-di-hamas.html ), è il turno dell'intervento di Adriano Sofri, da qualche giorno inviato speciale di Repubblica a Gaza. L'articolo che segue turba e commuove. Sofri non può essere accusato di essere un antisemita, assolutamente. Ha un'acuta sensibilità per la Shoa, condanna con durezza diamantina il razzismo contro gli ebrei (in verità, ogni forma di razzismo) e difende non per pro forma il diritto di Israele di esistere. Dopodiché, come tanti, è tra quelli che contesta la politica dei governi israeliani, da tempo sempre di destra, che sfruttano il terrorismo di Hamas per allontanare, di fatto, sine die la possibilità concreta di un vero stato palestinese, che inevitabilmente pone,tra l'altro, il problema cruciale degli insediamenti territoriali ebraici in Cisgiordania. Ieri vedevo sul Corriere una mappa della regione più grande in teoria destinata al nascituro stato della Palestina (Gaza, ci ricorda Sofri, è veramente uno sputo, grande quanto la provincia di Prato...) che riportava i punti degli insediamenti colonici, e si trattava di una fitta macchia di puntini blu...E in questi anni, dopo che Sharon unilateralmente aveva disposto lo sgombero degli insediamenti (a GAza  soprattutto), Nethaniyau ha invece lasciato che altri ne sorgessero dall'altra parte. NAturalmente non è questo il problema per Hamas, né per gli Hezbollah che sparano razzi dal Libano : quand'anche Israele sgomberasse tutte le colonie, come sarebbe bene che facesse, per loro resterebbe intatta la questione nevralgica e irrinunciabile e che è proprio lo stato ebraico che non deve esistere, sorto sulla terra dei palestinesi. 
Quindi, non se ne esce fino  a quando le parti radicali dei due schieramenti avranno di fatto la meglio su chi sarebbe disposto a sacrifici anche dolorosi pur di avere la pace. 
Ciò posto, tornando al bel post di Sofri, ho osservato, in calce allo stesso : " Conoscendo un poco la storia di Sofri, la sua testimonianza generosa di posti come la Bosnia e la Cecenia, non lo posso certo accusare di essere andato a Gaza e non in Siria. Lo dico con convinzione. Però mi piacerebbe un giorno leggere la sempre preziosa testimonianza di un osservatore sensibile e acuto come lui da Aleppo, Homs e altre città flagellate di quel paese. Non per polemica con lui (vale la premessa, sincera), ma con troppa gente che non so perché si commuove solo per gli orrori di Gaza."
Buona Lettura 


Allo zoo di Gaza
 
Non comincerò dai bambini: troppo facile, direste. Comincerò da dove comincerebbero i bambini, forse, dallo zoo di Gaza. Si trova in un sobborgo tra la città e il valico di Erez, pesantemente bombardato e svuotato dei suoi abitanti. C’era un parco giochi: le giostre sbrindellate, il terreno disseminato di proiettili d’artiglieria, una voragine delle mille aperte per distruggere la bocca dei tunnel. Scendiamo fino alle gabbie, aspettandoci di non trovarle più in piedi, e di non trovare vivi gli animali. Da giorni nessuno viene fin qui. Invece le gabbie, sgangherate, ci sono. Infime del resto: anche in tempi normali c’era poco spazio per gli animali prigionieri. Qualcuno ha drizzato alla buona delle lamiere lungo le sbarre, coperto gli strappi con irrisorie reti di fil di ferro. E ci sono gli animali. Un gibbone, nella prima: si muove lentamente di qua e di là, incerto fra accoglienza e offesa. C’è un odore tremendo di putrefazione, che guida lo sguardo sui cadaveri decomposti di due cuccioli. Le gabbie successive sono dei leoni: una coppia in una, un grosso maschio nell’altra. Erano celebri: perché lo zoo si è formato, pochi anni fa, importando le sue fiere dall’Egitto attraverso i famigerati tunnel, come ogni altra mercanzia. Portare leoni o tigri nei tunnel –e come fare con una giraffa?- fu un’impresa dubbia e favolosa, un passaggio di elefanti sulle Alpi alla rovescia. Due anni fa nacquero due leoncini, i bambini di Gaza furono felici, i custodi dello zoo non riuscirono a tenerli in vita. Ora i leoni devono essere affamati e assetati a morte, e però non hanno un atteggiamento aggressivo: al contrario, si drizzano contro la rete come aspettandosi ristoro, o almeno una complicità all’evasione. Nella prossima gabbia c’è una piccola disgraziata arca di Noé, un sovraffollamento –uso l’apposito termine carcerario- di animali alla rinfusa non so se da sempre o per l’emergenza: anatre, un imponente pellicano, che spinge verso di me il magnifico becco, un coccodrillo morto, lui, con la testa infilata dentro un tubo, e i resti spiaccicati di una cicogna. In un recinto accanto due struzzi mi vengono incontro con dignitosa fiducia. C’è una coppia di aquile avvilite, una gabbia di volpi che corrono in cerchio e si scavalcano frenetiche, una di lupi. Era diventato famoso, questo zoo raccogliticcio, anche perché un veterinario si era arrangiato a esaudire la passione dei bambini per le zebre dipingendo a strisce nere un paio di asinelli bianchi. (All’indomani della guerra dal famigerato nome di Piombo fuso lo zoo safari di Tel Aviv offrì di regalare due zebre vere: idea lodevole, non se ne fece niente). Di queste zebre d’emergenza non trovo traccia. L’ultima gabbia davanti a cui mi fermo, mentre il nostro accompagnatore ammonisce che questa è zona di guerra, contiene una coppia di macachi, e solo quando la femmina si muove mi accorgo che ha un piccolo aggrappato alla pancia. E’ quello che vi guarda dalla fotografia su questa pagina. Incredibile come somigli a un bambino, eh?
Non ho cominciato dai bambini, era troppo facile. I cuccioli umani non hanno chiesto di venire al mondo, e perciò sono innocenti: strada facendo si persuadono di poter essere via via più padroni del proprio destino, della propria destinazione, e smettono di essere innocenti. Gli altri animali molto meno, benché un vecchio scimpanzé di Gaza debba essersi fatto un’idea di come va il mondo, e i suoi colleghi abbiano imparato come i bambini a terrorizzarsi per le bombe, e a non distinguere tra quelle che vengono dal nostro lato e quelle che arrivano dall’altro. Gli occhi dei bambini di Gaza sono sospetti, ti fissano dagli appelli dell’Unicef o dai manifesti di Hamas. Troppo facile, si dice. Dipende da chi guarda, e l’occhio spalancato di uno struzzo basta a dire a che punto è la storia. Che cosa succede dei prigionieri quando una catastrofe li lascia soli e senza scampo nelle loro gabbie? Gaza, si dice, è una galera a cielo aperto, e ora persino il cielo le si chiude addosso. Intervistato su Israele, un abitante di Gaza, senza avere in mente gli animali in carne e ossa, ha detto: “Se tieni un animale in uno zoo sei obbligato a prendertene cura. Non puoi lasciarlo a morire di fame”.
Ora perfino il cielo le si chiude addosso. La legge morale a remengo, il cielo delle bombe sopra di lei. Le ore di tregua concesse (e violate) ieri da Israele ci hanno permesso di attraversare la Striscia, tranne la zona di Rafah. In alcuni quartieri di Gaza City la distruzione è enorme, a Shajaya, a Jabalya. Così nei villaggi di frontiera di Beit Hanoun e Beit Lahya. Ma nel villaggio di Khuza’a ho visto macerie che so paragonare solo a quelle che vidi in Cecenia. Khuza’a è nel sud della Striscia, a 500 metri dal confine con Israele, vicino a Khan Yunis. Aveva 8000 abitanti, tutti sfollati: ieri, fidando –e diffidando- della sospensione, alcuni di loro sono venuti a vedere che cosa rimane delle loro case, a frugare con le mani alla ricerca delle loro cose, a riprendersi un cuscino, una gallina superstite. Sono venuti a piedi, in moto o in auto, su strade squartate, e soprattutto sui carretti tirati dagli asini, eroi rassegnati della vita quotidiana e del disastro della guerra. C’erano quasi altrettanti giornalisti, e magari avete visto in televisione la rovina, o la grande insegna metallica contorta sulla quale si legge ancora: “Bon voyage”, in francese, chissà perché, e in arabo. Avrete visto, potete leggere, ma non sentirete l’odore soffocante di morti, umani e altri animali, ancora seppelliti sotto l’immane mole di macerie. Dalla moschea maggiore, crollata su se stessa come un castello di carte, erano stati estratti, in un breve cessate il fuoco precedente, quaranta corpi umani. Nell’ultima casa prima della “zona cuscinetto”, dei ragazzi con la bocca e il naso coperti dalle magliette vi portano a vedere lo stanzino nauseabondo in cui sei miliziani di Hamas sono stati giustiziati, e i militari israeliani, per la fretta o la distrazione, non si sono curati di ripulire. Voglio dire, senza rinunziare al mio pregiudizio in favore dell’esistenza dello Stato di Israele –in realtà il postgiudizio di uno che è nato nei giorni in cui si davano gli ultimi ritocchi alla soluzione finale- che nessuna considerazione può far credere che una simile, metodica, totalitaria devastazione abbia a che fare con obiettivi circoscritti come la neutralizzazione dei tunnel o dei lanci di razzi da parte dei miliziani islamisti di Gaza. E’ così per Khuza’a, per la centrale elettrica sventrata, e per altri luoghi che abbiamo visto e filmato.
Per me, che non ero mai venuto a Gaza, scriverne è come compilare il necrologio di qualcuno che non si è mai incontrato da vivo. Gaza non è affatto morta, naturalmente, benché sia stata tanto colpita, ma mi manca il confronto continuo che le persone che la abitano o quelle che l’hanno a lungo frequentata fanno con le cose di prima: questa strada deserta e spenta che prima era brulicante di negozi e gente, questa distesa di macerie che era un villaggio dei più prosperi. O anche con le guerre di prima: vengo dal 2006, dice Mauro Della Torre, il chirurgo di guerra italiano arrivato in fretta dal Sud Sudan all’ospedale Shifa di Gaza City, ma non avevo ancora visto un simile strazio di corpi. Ignaro sia delle guerre di prima che della pace di prima, io posso solo raccontare quello che ho visto finora in due giorni appena. Sono più lunghi i giorni e le notti scandite da colpi di artiglieria e di bombardamenti aerei e navali –e di missili e razzi di Hamas e di Jihad: ogni volta bisogna reimparare se il rimbombo proviene da un ordigno collocato dal lato in cui ti trovi in quel momento, e allora devi restare indifferente, o è un colpo in arrivo, e allora puoi avere un sussulto d’ordinanza. Per non sfigurare. E soprattutto la striscia di Gaza è piccolissima, e in un giorno la si percorrerebbe per intero chissà quante volte. Gaza è grande come la provincia di Prato, che è la più piccola delle province toscane. Sicché quella che si chiama pomposamente Quarta Guerra di Gaza è una specie di bega di vicinato, un feroce scontro di pianerottolo. Gaza non è morta, e non è com’era prima: è come uno dei feriti che fanno disperare il chirurgo di guerra, che si tengono fra le mani le viscere dilagate. Si abusa del nome di guerra –lo si fa in tutto il mondo. Le guerre erano mostruose, ma fingevano un loro codice. Questa la si chiama guerra per alludere a un conflitto che si crede irriducibile, o si vuole irriducibile. Non è vero. La pace potrebbe sempre venire e mostrare una sua ragionevolezza e naturalezza. Intanto, non è solo la disparità colossale di mezzi militari a far escludere la nozione di guerra, pur con la variante dell’asimmetria –da conservare solo per il suo faticoso corollario, i crimini di guerra e la loro sanzione morale e giudiziaria. La vita rispettiva nelle retrovie è troppo diversa: più di quanto sia lontano un asinello bianco che trascina il carro di masserizie da un’auto lustra di grossa cilindrata. La Striscia di Gaza non ha retrovie: è tutta una prima linea. Israele è tutta una retrovia, con i suoi figli ragazzi e i suoi fedeli riservisti lungo la prima linea. A Tel Aviv, a Gerusalemme, la guerra è impercettibile se non per la penuria di turisti, per l’apprensione delle famiglie, per una tensione a fior di pelle che qua e là rompe e avverte della tragedia. Ieri a Gerusalemme, nel cuore della retrovia, la tensione è esplosa in un modo sanguinoso e allarmante. L’odio sa come nutrirsi e farsi spazio. Hamas non era amato, nella Striscia. I suoi 20 mila miliziani si nascondono sottoterra, i suoi tesserati erano ridotti a 10 mila persone. La sua manomissione delle cose che rendono preziosa la vita –la libertà delle donne, della scelta sessuale, il ripudio del corteggiamento della morte altrui e propria, della superstizione religiosa- pesa sulle persone di Gaza quanto e più che su quelle del resto della terra. Se i responsabili di Israele si sono fatti prendere ancora una volta la mano dal desiderio di una punizione collettiva concedendosi l’illusione che servisse a renderne Hamas colpevole e invisa agli occhi della gente di Gaza, ha sbagliato due volte.

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