giovedì 7 agosto 2014

DOPO L'ISTAT, ANCHE ALLA STAMPA DI TORINO - RENZIANI DI GRANITO - SI SONO ACCORTI CHE QUALCOSA NON VA


Se anche la Stampa "molla" Renzi, dopo essere stato il giornale più fedele al Premier in questi mesi, a livelli quasi di velinario, vuol dire veramente che la delusione inizia a montare. Osservano giustamente i renziani : ma che pretendete dopo 5 mesi ???? Hanno ragione, ché solo un folle potrebbe pensare che esista qualcuno che in poco tempo possa aggiustare  cose che per storcerle così bene ci abbiamo impiegato decenni (almeno 4...).
E nemmeno serve a rimarcare che semmai lo "scemo" che prometteva una riforma al mese era l'attuale presidente del consiglio. Euforia da esordio, che abbiamo visto in altri, in passato, che arrivati a Palazzo Chigi pronunciavano meraviglie per i primi 100 giorni...
 Il problema è che le poche cose fatte in questo tempo suscitano perplessità non solo per la pochezza in sé, quanto per la sensazione della mancanza di una ROTTA chiara, da perseguire con determinazione convinti che sia quella giusta. Invece, ogni volta, il nostro parte lancia in resta e poi s'impantana, esattamente allo stesso modo che accadeva ai suoi predecessori  (l'ultimo era un compagno di partito, bellamente accoltellato proprio con la storia della palude, che era anche vera, ma non è che Renzino stia mostrando di riuscire ad evitarla).
In Italia niente si può fare in fretta, perché qualunque settore tocchi oppone resistenze assolute. Del resto accade anche in altri paesi, e faccio due esempi : Grecia e Francia. Entrambi, come noi, si erano abituati ad un welfare, ad un livello di spesa e di debito che rendevano tutti - o quasi - felici in un benessere diffuso. Ora non ci sono più risorse per garantire quel tipo di benessere, ma ciascuno difende con le unghie e con i denti il proprio fortino. La Grecia però è  un paese troppo debole economicamente, ed è bastato dire "trovateli da solo i soldi per gli stipendi, per le pensioni, per il sistema che avete messo su", che i politici ellenici si sono dovuti arrendere alle condizioni - durissime - dei prestatori di denaro che loro non avevano. Lo stesso,  mutatis mutandis, è accaduto ad Irlanda e Portogallo. E anche la Spagna ha preso 40 miliardi per le sue banche, assicurando in cambio di fare certi passi (che ha fatto !). Francia e Italia NO, forti di un'economia comunque più grande, ancorché non sempre sana, fanno più di testa loro, ma con risultati mediocri. E infatti in Francia le iniziali riforme di Hollande, basate soprattutto sul "togliere di più a chi ha di più", hanno portato solo ad una robusta fuga di capitali e imprese (quelle che potevano),finite in gran numero nella vicina Inghilterra pronta ad aprire le braccia ed offrire un più conveniente sistema fiscale. Hollande, dopo il tracollo elettorale, ha cambiato primo ministro e anche politica, accettando l'inaccettabile per gli statalisti francesi : ridurre le prebende di Stato, e quindi tagliare la spesa pubblica (quella che Fassina indica ad esempio come modello, e che invece deve dimagrire anche oltralpe !).
In Italia siamo in una situazione analoga, con un debito pubblico però decisamente peggiore, ed un livello di sprechi e di assistenzialismo superiori ai cugini transalpini. Il problema di chiunque governi in Italia è dunque duplice : avere una maggioranza coesa che approvi i duri provvedimenti che da tre anni ci dicono dover adottare (e non lo abbiamo fatto, nonostante ci fossimo liberati dal "male assoluto" ) e resistere alle resistenze corporative e ai disagi che le stesse causeranno.
Insomma, abbiamo bisogno di una Thatcher che resista ad un anno e mezzo di sciopero dei minatori, di un Blair che rompa col sindacato e con la sinistra tradizionale, di uno Schroeder che per salvare la Germania accetta di sacrificare il suo futuro politico. O anche, per venire ai giorni nostri, di ministri come quelli del governo Rajoi in Spagna, che osano dire agli scioperanti : le leggi le fa il parlamento e non la piazza. 
Tutto questo da noi non si vede, e certamente non è colpa di Renzi.
Però questo è, e tutto il resto - quello che il Premier soprattuto fa - è ammuina. 
Riporto l'articolo di Luca Ricolfi, che ovviamente è quello che condivido di più, ma chi volesse investire 1,50 euro, troverebbe su La Stampa gli articoli di Deaglio ma addirittura  di Sorgi (uno dei tanti infatuati del toscano), finalmente critici nei confronti del giovin signore. 
E anche il semplice cronista, Fabio Martini, nel riportare il confronto di Renzi con la stampa dopo i funesti risultati ISTAT, non ha potuto fare a meno di chiosare : " ...non una parola, men che mai un cenno di autocritia, sul trend negativo". 
Sì, anche alla Stampa si sono accorti che qualcosa non va.


Il costo delle riforme mancate





La lezione è semplice. Renzi ha la testa dura, ma i numeri hanno la testa ancora più dura. Sbeffeggiata dal premier fino a pochi giorni fa, l’economia si sta riprendendo un’amara rivincita. L’Istat ha annunciato che l’Italia è di nuovo in recessione (altroché ripresa nel 2014!), lo spread ha ricominciato a salire, la fiducia nell’Italia è gravemente compromessa sia sui mercati finanziari sia nelle cancellerie europee.  



Dopo aver trattato con sufficienza chi considera importante qualche decimale in più o in meno, ora Renzi può toccare con mano che è vero l’esatto contrario: crescere o invece decrescere dello 0,2% fa differenza, avere un debito pubblico in diminuzione o in aumento fa differenza, entrare in recessione piuttosto che uscirne fa differenza. Una differenza enorme.   

Dal momento che è da gennaio, ossia da ancor prima che Renzi disarcionasse Letta, che insisto sull’imprudenza delle scelte di Renzi, oggi vorrei provare a lasciarlo in pace. Non è tempo di recriminazioni e di impietosi «io l’avevo detto». Quello su cui vorrei soffermarmi, semmai, è l’ambiente in cui Renzi e i suoi fedeli operano, dove per «ambiente» intendo il complesso di credenze, convinzioni, abiti mentali che finora gli hanno reso così facile procedere come uno schiacciasassi. Sono esse, a mio parere, le vere responsabili dell’incapacità dell’Italia di risollevarsi; sono esse il male che neutralizza (o «gattopardizza», direbbe Alan Friedman) ogni vero cambiamento; sono esse l’acqua in cui il pesce Renzi nuota. Di che cosa è fatta l’acqua in cui, come un banco di gagliardi tonnetti, si muovono i nuovi governanti? 
Il primo ingrediente è la credenza che il cambiamento delle regole generali (legge elettorale, forma di governo, tipo di federalismo), un’attività in cui politici, giornalisti e diversi tipi di intellettuali si trovano tremendamente a proprio agio, sia più importante della bassa cucina delle politiche economico-sociali. Che bello discutere di bicameralismo, Senato elettivo o non elettivo, democrazia, rappresentanza, soglie, preferenze, sbarramenti e premi di maggioranza! Che barba la spending review di Cottarelli, le regole del mercato del lavoro, gli ammortizzatori sociali, le privatizzazioni, le pensioni!  
Qui c’è un’incredibile leggerezza e confusione, come se su una nave che affonda, con i passeggeri che si dibattono fra i flutti, le scialuppe di salvataggio che non bastano a recuperare tutti, il comandante stesse appassionatamente discutendo come sostituire la vecchia radio di bordo con un modernissimo, e sicuramente utilissimo in futuro, sistema di navigazione satellitare. Il secondo ingrediente, spesso imputato a Tremonti ma evidentemente molto radicato nella mentalità del Paese, è l’idea che buona parte dei nostri guai economici vengano dall’esterno e che, di conseguenza, anche la nostra salvezza sia destinata a venire da fuori. E’ l’Europa che impone l’austerità, è l’euro che è sopravvalutato e frena le nostre esportazioni, è la congiuntura nell’eurozona che è in ritardo.  
Dunque è la Commissione europea che deve allentare il rigore, è Mario Draghi che deve indebolire l’euro, e quanto alla ripresa si tratta solo di aspettare. Con le parole del premier: «E’ un po’ come l’estate: non è che è arrivata quando volevamo, magari non è bella come volevamo, arriva un po’ in ritardo ma arriva» (esercizio: provate a immaginare che cosa sarebbe successo se, dopo 7 anni di crisi, una rassicurazione del genere l’avesse data Berlusconi). Questa visione vagamente fatalistica e attendista, che verosimilmente ha le sue radici nella storia d’Italia, con la sua lunga soggezione a invasori e popoli stranieri, è di per sé un potente fattore di sottovalutazione dell’urgenza e dell’impatto delle riforme economico-sociali. Se, almeno nel breve periodo, quasi tutto dipende da quel che succede nel mondo esterno, se il vero problema è l’Europa, beh allora perché tanta fretta sulle riforme economico-sociali? Meglio dare un segnale di cambiamento (ma i governanti preferiscono chiamarlo «svolta epocale») sul terreno delle regole, sul resto ci si annoierà più avanti.  
Il guaio è che questa diagnosi è difficilmente conciliabile con i dati. E’ vero che l’Europa cresce di meno di altre aree del mondo, ma il punto è che le differenze interne all’Europa, comprese quelle interne all’eurozona, sono enormi: la differenza fra i tassi di crescita dei Paesi-gazzella e quelli dei Paesi-lumaca è di 7-8 punti, l’Italia cresce meno della media degli altri Paesi, e la sua posizione in graduatoria è oggi esattamente quella di prima della crisi: solo 2 Paesi su 30 fanno peggio di noi. 
C’è anche un terzo ingrediente, però. E’ il keynesismo di comodo che si impadronisce di chiunque, di destra o di sinistra, si trovi a dover governare il Paese. Che cos’è il keynesismo di comodo? E’ la convinzione che, nonostante lo stato drammatico dei nostri conti pubblici, la via maestra per far ripartire l’economia sia qualche forma di sostegno alla domanda di consumo, come gli 80 euro in busta paga o l’allentamento del patto di stabilità, non importa se al prezzo di aumentare il debito pubblico, ossia il fardello che lasceremo alle generazioni future. Che questa convinzione sia sostenuta, oltre che dagli interessi elettorali dei governanti, da più o meno sofisticate teorie economiche, poco toglie alla sua radicale mancanza di senso della realtà. Solo chi non ha la minima idea dei problemi di chi conduce un’impresa può pensare che la decisione di chiudere o non chiudere, di licenziare o di assumere, possa dipendere da un aumento dello 0,2% o anche dello 0,5% della domanda di consumo, e non da un sostanzioso recupero di redditività, sotto forma di riduzione del prelievo fiscale sui redditi di impresa. Per questo mettere 10 miliardi sull’Irpef anziché sull’Irap è stata una mossa geniale sul piano elettorale, ma stolta sul piano economico. 
E anche qui, non si creda che Renzi sia stato particolarmente innovativo: la stessa scelta, rinunciare a mettere tutte le risorse sull’Irap, fu fatta già da Prodi nel 2007, contro il parere del suo ministro dell’Economia, il compianto Tommaso Padoa Schioppa. E’ una vecchia storia. Ai politici piace spostare risorse, ridistribuire da un gruppo sociale (nemico) all’altro (amico), perché in cuor loro sono convinti che l’ampiezza della torta da spartirsi in fondo non dipenda dalle loro scelte, mentre è vero il contrario: la politica ha fatto molto per soffocare l’economia, e molto potrebbe fare per cominciare a riparare il danno. Ma questo qualcosa si chiama riforme economico-sociali, a partire dalla dimenticata riforma del mercato del lavoro, spostata alle calende greche perché troppo scottante, o meglio troppo divisiva per il Pd. E’ sulle riforme difficili, sulle misure necessarie ma impopolari, che passa il confine fra spavalderia e coraggio, fra la retorica delle «svolte epocali» e la prosa delle scelte che contano. 
Ci sarebbe poi, se vogliamo dirla tutta, anche un ultimo ingrediente che fornisce il suo speciale sapore all’acqua delle non-riforme in cui i nostri governanti nuotano con tanta disinvolta naturalezza. Quell’ingrediente è la nostra facilità a passare da un modello al modello opposto, il nostro bisogno di affidarci a qualcuno, la nostra attrazione per ciò che appare vincente, la nostra perenne oscillazione fra indignazione e indifferenza, fra entusiasmo e apatia. Insomma, lo stato dei nostri media e della nostra opinione pubblica. 
Ma questo, ne convengo, è un altro discorso.

Luca Ricolfi

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