mercoledì 13 agosto 2014

LA SPERANZA FLEBILE CHE LA DIPLOMAZIA ABBIA UN BANDOLO PER LA QUESTIONE MARO'


Siamo alla vigilia di ferragosto, sarà il caso di cogliere qualche notizia positiva. Certo non ne vengono dal mondo del cinema, con la tragica morte di Robin Wiliams cui oggi si aggiunge quella della bella Lauren Bacall, compagna di Humphrey Bogart.In Iraq i soldati del Califfo avanzano, i soldati iracheni confermano quello che hanno fatto vedere in tutte le guerre  (la cosa che gli viene meglio è alzare le mani e mollare armi ed equipaggiamento in mano al nemico), recenti, l'Italia è in recessione e l'Europa sta non tanto meglio. 
Ci capita per le mani questo articolo di Danilo Taino che segue per il Corriere la vicenda dei marò italiani bloccati in India ormai da 30 mesi senza che uno straccio di processo riesca almeno ad iniziare. 
Ebbene, secondo Taino qualcosina, magari proprio "ina", si starebbe muovendo in senso non negativo per i due militari . Come avevano pronosticato gli ottimisti (Taino era tra questi), la vittoria di Modi, e quindi la perdita del potere del clan Ghandi, con Sonia angosciata di fare la parte dell'italiana che tradisce il popolo indiano per le sue origini, ha prodotto maggiori spazi alla diplomazia, che pare abbia infatti ripreso a parlarsi , con la volontà, ora finalmente anche indiana, di trovare soluzione ad una questione spinosa per noi, drammatica per i marò e le loro famiglie, ma nemmeno per gli indiani idilliaca.
Del resto, che l'India non si trovi tra le mani due semplici e certi assassini mi pare ormai evidente anche dal modo lentissimo e involuto con cui stanno conducendo la questione dall'inizio.
L'argomento di Taino è sottile, va letto con attenzione, e alla fine dello stesso non è detto che uno ne esca persuaso. Pare che in autunno i rinvii dovrebbero finire, e qualcosa, in un senso o in un altro, accadrà.
A questo punto poche cose sarebbero peggiori di questa protratta agonia. 



L’Italia e la diplomazia tranquilla Si riapre il dialogo sui due marò
La nuova strategia dell’avvocato britannico
 e i passi avanti con Modi
 


Lunedì scorso, la quiet diplomacy che da qualche mese il governo italiano ha scelto per affrontare il caso dei due marò trattenuti in India ha un po’ vacillato. Dopo avere parlato al telefono con il primo ministro indiano Narendra Modi, Matteo Renzi ha emesso un comunicato nel quale informava del colloquio e diceva di avere auspicato una soluzione rapida della vicenda di Salvatore Girone e Massimiliano Latorre. Questo spingeva l’interlocutore a emettere a sua volta una dichiarazione per ribadire la posizione indiana: cioè che il giudizio nel quale è coinvolta la Corte Suprema di Delhi deve seguire il suo corso, dal momento che «il sistema giudiziario indiano è libero, giusto e indipendente». Dopo mesi di lavoro sotto traccia della diplomazia di Roma, sembrava che, come nel Gioco dell’Oca, si fosse tornati alla casella di partenza, nella quale ognuno ribadisce le proprie posizioni.
In parte, forse, è così: sia Renzi sia Modi pensavano alla propria opinione pubblica. Ieri, a una rilettura del testo indiano, l’analisi degli esperti è però cambiata: il linguaggio del comunicato è un brillante esercizio di equilibrio che apre strade diplomatiche finora non scontate. Modi sostiene che una soluzione «giusta e presto» è «nel mutuo interesse». Aggiunge di essere convinto che i tribunali indiani «nel giudicare il caso prenderanno in considerazione tutti gli aspetti». Si impegna a rafforzare «le relazioni bilaterali». E concorda sul «mantenere uno stretto dialogo a tutti i livelli». Non dice «sediamoci a un tavolo e trattiamo»: le sue parole, però, vanno al di là della formalità. Soprattutto, il tono è diverso da quello del precedente governo di Delhi, pesantemente influenzato da Sonia Gandhi che non voleva favorire una soluzione della vicenda per timore di essere accusata di aiutare gli italiani in un caso che riguarda la morte di due pescatori indiani. Su questa nuova realtà la diplomazia italiana potrà lavorare.
Possibilmente prima di metà ottobre, quando si terrà una nuova udienza del tribunale incaricato di processare i due marò, l’Italia cercherà di avere lo scambio di vedute che da tempo ha chiesto a Delhi: a quel punto potrà fare delle proposte e verificare se Modi è disponibile a trovare una soluzione soddisfacente per ambedue i Paesi. Il fatto che per la prima volta da tempo i capi dei due governi abbiano parlato del caso, che un rapporto lo abbiano stabilito anche il ministro degli Esteri italiano Federica Mogherini e quello indiano Sushma Swaraj, i contenuti della lettera di Modi e altri segnali tenuti riservati dalla due parti aprono la prospettiva di una strada nuova che sarebbe assurdo non percorrere. Non scontata: già negli scorsi due anni Roma si è illusa delle intenzioni di Delhi. Ma nemmeno scontato è che il nuovo governo indiano voglia andare incontro a un arbitrato internazionale, al quale l’Italia ricorrerebbe se la diplomazia fallisse: già oggi l’India è il Paese che ha il più alto contenzioso davanti alla Corte arbitrale internazionale (spesso perde), e un primo ministro come Modi, che ha bisogno della certezza del diritto per attrarre investitori, difficilmente vuole allungare la lista.
In una trattativa, l’Italia è in svantaggio, dal momento che i marò sono in mani indiane. Per creare una situazione in cui anche Delhi sia interessata a trattare, l’idea è dunque quella di ampliare i temi in discussione in modo da creare una situazione win-win , nella quale ambedue i giocatori vincono: iniziando magari con il favorire il ritorno dell’India all’Expo di Milano (dove ha rinunciato ad avere un padiglione), per passare poi alla cooperazione economica e a quella culturale. In termini un po’ ottimistici: dalla crisi dei due fucilieri di Marina potrebbe uscire un rapporto fattivo tra Delhi e Roma (che finora non c’è mai stato). È su questa linea che sta lavorando, tra Londra e Roma, il team giuridico guidato da Sir Daniel Bethlehem e formato da cinque italiani e quattro stranieri.
La quiet diplomacy è stata voluta proprio da Sir Daniel: per preparare la nuova strategia di relazione con l’India, compresa ovviamente una soluzione per Girone e Latorre, e per riparare il rosario di errori compiuti in due anni e mezzo di gestione del caso. La scelta di rivolgersi a un avvocato britannico, criticata da alcuni politici, non è data solo dal prestigio di Bethlehem (già consigliere principale del britannico Foreign Office): è una necessità dettata dal fatto che negli arbitrati tra Stati sono meno di dieci gli avvocati membri del club che conta, praticamente tutti anglosassoni e comunque non italiani. Se l’obiettivo è avere successo, la scelta è obbligata (nel team ci sono anche un avvocato australiano e uno di Singapore, entrambi donne, e un inglese di origine indiana). Tra l’altro, per la prima volta, l’Italia si trova ora ad avere una serie di piani di emergenza, preparati da Sir Daniel, per ogni possibile sviluppo della situazione.
Tra questi, anche la possibilità che la diplomazia fallisca e si arrivi a tenere il processo ai due militari italiani in India, ipotesi che Roma rigetta sulla base della «immunità funzionale», cioè del fatto che i marò fossero in missione ufficiale quando, il 15 febbraio 2012, successero i fatti che causarono la morte dei due pescatori. Se sarà così, lo si capirà in autunno. A quel punto, la tensione tra India e Italia farebbe un salto di qualità, dal momento che, se Girone e Latorre non si presentassero al processo, Delhi emetterebbe un mandato di cattura. Ed è allora che l’Italia avrebbe una ragione forte per ricorrere a un arbitrato internazionale unilaterale: come percorso in sé e come strumento di ulteriore pressione su Modi per trovare un compromesso.
La situazione, insomma, può sembrare ferma, addirittura tornata alla casella di partenza. In realtà si muove e, per la prima volta da trenta mesi, la dinamica ha qualche tratto positivo. Da considerare con prudenza, visti i precedenti, e purtroppo senza l’illusione di potere fare in fretta. Ma niente è immobile nell’India di Narendra Modi, nemmeno il caso marò.

Danilo Taino

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