Nella lettera che Fassina ha scritto al Corriere qualche giorno orsono ( la trovate nel link http://ultimocamerlengo.blogspot.com/2014/08/fassina-basta-tagli-alle-spese-falsa-la.html ), una cosa mi sembrava giusta - probabilmente solo quella - e cioè che in fondo si trattava di un discorso coerente da parte di un uomo di sinistra, per il quale la spesa è sempre buona cosa, e lo Stato si deve premunire i mezzi per sostenerla. Poi essa deve essere efficiente, nel senso che non ci devono (dovrebbero, meglio...) essere sprechi (tantomeno ruberie) e devono essere garantiti buoni servizi. Siccome questo da noi non avviene, gli sforzi devono essere in quel senso. Erano le promesse economiche di Bersani, sostanzialmente, e ci sta che uno di sinistra, che sempre nutre grande fiducia nello Stato, parli (chissà se lo pensa pure) così.
La replica di Nicola Rossi - che pure ha un passato di deputato e senatore dei DS (2001 e 2006) e del PD (2008) - riprende questo concetto.
Non si può rimproverare Fassina per le cose che dice, ché sono coerenti con la sua parte. Non si può chiedere alla sinistra di fare la "destra".
Semmai, osserva giustamente sempre Rossi, quello che si può contestare è la pretesa di scientificità del discorso fassiniano, laddove è solo economia messa al servizio della politica. Legittimo, ma non oltre questo.
Al ragionamento di Fassina , Rossi replica con logica serrata (ma anche Giacalone aveva risposto adeguatamente : http://ultimocamerlengo.blogspot.com/2014/08/giacalone-replica-fassina-e-saluta-in.html ) che vi propongo.
C'è un passaggio, in particolare, che mi ricorda concetti letti negli scritti dei laburisti più evoluti : va bene la redistribuzione, ma prima bisogna creare le premesse per la stessa, e quindi favorire politiche di crescita ! Se no, la chiosa è mia, che c....ti redistribuisci ???
Buona Lettura
Una spesa (troppo) alta
per servizi inefficienti
Caro direttore, Stefano Fassina ha ragione: le scelte relative alla dimensione della spesa pubblica sono essenzialmente politiche (e hanno molto a che fare con la nostra idea degli spazi di libertà individuale). Alcuni — e Fassina è fra questi — preferiscono livelli elevati di spesa pubblica e quindi (presto o tardi anche) di pressione fiscale. Altri — me compreso — non hanno dubbi nel considerare preferibile, tanto ai fini dell’efficienza quanto a quelli dell’equità, la soluzione esattamente opposta. Ci sono buoni motivi per pensare — e il caso italiano sembrerebbe essere un esempio particolarmente interessante — che chi opta per la prima soluzione debba anche necessariamente accontentarsi di tassi di crescita più contenuti (con tutte le conseguenze del caso). Sarebbe una posizione politicamente legittima purché — di fronte a tassi di crescita prossimi allo zero — non si giochi poi a scaricabarile.
In questo senso, il dibattito sui rispettivi ruoli della politica e della tecnica che ha segnato di recente il tramonto dell’ennesimo esperimento di spending review nel nostro Paese è privo di reale significato. Con buona pace degli esponenti del centrodestra che ne fanno parte, il Governo in carica è sorretto da una maggioranza eletta sulla base di un programma che può, al massimo, contemplare una «riqualificazione e una riallocazione» della spesa pubblica ma certo non un ridimensionamento della presenza dell’operatore pubblico nell’economia e nella società italiane. Non può quindi destare alcuna meraviglia la vaghezza con cui l’esecutivo ha affrontato e affronta i temi della revisione della spesa e dei corrispondenti tagli di imposte. Anche su questo punto, dunque, Fassina ha ragione: non ha alcun senso chiedere che la sinistra faccia la destra. Ci sono parecchi motivi per pensare che a sinistra gli elettori non gradirebbero. Chi ritiene che una presenza eccessiva dell’operatore pubblico — tanto in termini di flussi (spesa pubblica) quanto di stock (attività controllate dal pubblico) — sia alla radice di molti dei nostri problemi non ha che una strada: lavorare perché, quando sarà il caso, prevalga nelle urne una diversa maggioranza.
Quel che però è difficilmente accettabile nell’argomentazione di Fassina è il tentativo di dare una veste scientifica a quella che, si è detto, è una legittima posizione politica. Per diversi motivi. Primo, a livelli di spesa pubblica identici possono corrispondere servizi pubblici di qualità e quantità radicalmente diversi. Nel caso italiano una spesa pubblica rilevante appare incapace di garantire livelli uniformi e accettabili dei servizi per i quali vogliamo che uno Stato esista. Quel che emerge dall’ottimo lavoro di Carlo Cottarelli non ha bisogno di commenti. Livelli di spesa pubblica comparabili a quelli prevalenti in altri Paesi possono facilmente rivelarsi abnormi se incapaci di tradursi in benefici di entità almeno corrispondente per (tutti) i cittadini.
Secondo, la quota di spesa pubblica sul prodotto tende a crescere al crescere del livello di benessere. Nel corso dell’ultimo quarto di secolo l’Italia si è purtroppo significativamente impoverita e, di conseguenza, è del tutto comprensibile — anche se ad alcuni può spiacere — che la quota di spesa pubblica sul prodotto si attesti su livelli significativamente più bassi. Molto semplicemente, non possiamo più permetterci molte delle cose alle quali ci eravamo abituati (anche perché oltre a esserci impoveriti abbiamo fatto di tutto per indebitarci fino al collo). Terzo, l’idea che il Fondo monetario internazionale abbia sostituito riferimenti più tradizionali nel Pantheon della sinistra è piuttosto divertente, anche perché mentre è certamente vero che l’impatto delle politiche fiscali non è indipendente dalle condizioni in cui le stesse vengono attuate, a stare alle quantificazioni dello stesso Fmi sembrerebbe più che probabile che tagli di spesa (soprattutto se alla spesa per trasferimenti) siano più raccomandabili rispetto ad aumenti della pressione fiscale soprattutto in presenza di condizioni di vulnerabilità sul fronte del debito. Ogni riferimento al caso italiano è del tutto casuale.
Nicola Rossi
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