Da due mesi a dieta. Magrissimo, come molti, da ragazzo, poi peso giusto, con semmai due chili in meno che più, fino ai 30/35 anni, avevo iniziato la triste stagione di qualche chilo "oltre" approssimandosi i 40, ma niente di che : erano quei 3-4 chili invernali che venivano di regola recuperati in estate. Insomma, il mio metabolismo, accompagnato da una decente attività sportiva (tennis e calcetto, 3-4 volte la settimana), mi consentiva di mangiare quello che volevo, tenuto conto che non ho mai esagerato nelle quantità (mai stato un mangione), non lesinandomi però nulla di quelle cose tanto buone e assai caloriche (pane, pasta, pizza, fritti, gelato d'estate) e non proprio salutari.
I problemi sono venuti passati i 45, con, evidentemente, il metabolismo in rallentamento e anche la riduzione, fino alla cessazione, dello sport, complice anche una lesione meniscale (poi risolta) e il tramonto dei "calcettari" storici, pensionati o emigrati in altri circoli. Risultato, i chili in più sono diventati deciso sovrappeso. Cercai di vedere se con un po' di attenzione riuscivo a invertire la rotta ma al massimo perdevo qualcosina, quando ormai il problema aveva superato la doppia cifra. A fine settembre quindi mi sono arreso e mi sono rivolto ad una dottoressa nutrizionista, molto attenta alle intolleranze alimentari. Dopo due mesi ho perso circa 10 chili, recuperato la taglia ante crisi e quindi l'80% del mio guardaroba (qualche camicia "slim", da fighetto, che mi concedevo, ancora è stretta...). insomma sono contento, anche se i sacrifici sono stati notevoli. Devo dire che non ho quasi mai sofferto la fame, tranne un po' all'inizio iper proteico (ora la pasta, di kamut preferibilmente o di farro in alternativa, è tornata 4-5 volte nel mio menù settimanale), però tuttora mi mancano tutta una serie di cibi e cucine più sfiziose e golose. Insomma una dieta più frustrante che affamante.
Naturalmente sono diventato sensibile all'argomento, e mi ha colpito questo articolo su La Stampa che peraltro ripropone una teoria che avevo gia' letto : digiunare, un po', fa bene. le abitudini alimentari apprese col benessere sono sbagliate in sè, anche stando attenti a quantità e qualità del cibo. mangiamo comunque troppe volte, tre al giorno con aggiunta di sneck infrapasto, mentre invece è bene inserire qualche sosta prolungata nella settimana. Un piccolo digiuno, di 16 ore, da osservare non ho capito bene quante volte nella settimana - ma minimo due - , con risultati stimolanti sul metabolismo e anche a livello neuronale...
Voglio inviare alla mia brava nutrizionista questo post e sentire cosa ne pensa...
Obesità, ridurre la quantità di cibo non basta. Attenti a frequenza dell’assunzione
Intermittenza è la parola chiave per ottenere una riduzione
dell’assorbimento di calorie. Le giornate di quasi digiuno aiuterebbero
il metabolismo.
milano
L’eccessivo apporto calorico non sarebbe l’unico e neppure il principale fattore alla base dell’epidemia di obesità, diffusa ormai in tutto il mondo industrializzato. Una revisione della letteratura esistente, appena pubblicata sui Proceedings of the National Academy of Sciences, sostiene che è il momento di prestare attenzione anche al momento e alla frequenza dei nostri pasti. Per i ricercatori, il limitare in modo intermittente la quantità di cibo consumato, introducendo nel corso della settimana delle giornate di quasi digiuno, può essere d’aiuto al nostro metabolismo, anche a costo di stravolgere le abitudini di milioni di persone.
La restrizione calorica ad intermittenza. Ridurre con una certa frequenza settimanale le calorie introdotte fin quasi a zero sarebbe più salutare di mangiare liberamente o di fare tre pasti al giorno. Per testare questa ipotesi, gli autori della pubblicazione hanno analizzato i dati relativi agli esseri umani e ai mammiferi, concludendone che «periodi intermittenti di restrizione calorica di appena 16 ore possono migliorare gli indicatori di salute e contrastare processi patologici. I benefici deriverebbero da uno spostamento globale del metabolismo a favore dell’utilizzo dei grassi e della produzione di corpi chetonici, e dalla stimolazione di risposte cellulari adattative allo stress che impediscono e riparano il danno molecolare».
Le ragioni della cultura. Intorno al cibo spesso ruota la nostra vita sociale. Esso ne scandisce i momenti importanti, dal pranzo della domenica, all’aperitivo del venerdì. Ma il ritmo per noi più diffuso, costituito da colazione, pranzo e cena, con qualche snack saltuario, andrebbe abbandonato perché non sarebbe il modello di nutrizione ottimale per la salute, oltre che anomalo dal punto di vista evolutivo. E i suoi effetti negativi si farebbero sentire anche sul nostro cervello. Secondo il neuroscienziato Mark Mattson del National Institute on Aging di Bethesda, il digiuno ad intermittenza per alcuni giorni a settimana, non consecutivi, può migliorare le prestazioni nei test cognitivi e modificare le connessioni neurali e i livelli di stress ossidativo e infiammazione.
Le ragioni dell’evoluzione. Dopotutto, osservano i ricercatori, i cacciatori-raccoglitori e gli animali in natura non hanno, se non raramente, obesità, diabete e malattie cardiovascolari, diffuse ormai anche nei nostri animali domestici. I nostri organismi si sono adattati a condizioni di cibo scarso, disponibile solo in alcuni momenti, e da consumare nelle ore diurne, cui facevano seguito anche molte ore di digiuno. «Alcuni di questi adattamenti sono evidenti – spiegano gli scienziati - Pensiamo a come il nostro fegato riesce ad immagazzinare il glucosio e rilasciarlo per rapidi utilizzi o all’immagazzinamento di energia per il lungo periodo resa possibile dal tessuto adiposo» osservano gli scienziati.
Con la rivoluzione agricola, il cibo è diventato un bene costantemente a nostra disposizione e l’illuminazione artificiale in ogni casa, in età moderna, ne ha ulteriormente esteso le possibilità di consumo. L’effetto nocivo dello sconvolgimento dei ritmi circadiani è sotto gli occhi di tutti, fanno notare i ricercatori, un esempio tra tutti è l’aumentato rischio di malattie metaboliche presente nei lavoratori di notte.
Fornire al nostro corpo la giusta quantità di energia al momento giusto, concludono i ricercatori, è importante per mantenersi sani e prevenire le malattie. Gli studi proseguono e saranno «fondamentali per sviluppare strategie per integrare questi modelli alimentari nella politica e nella pratica sanitaria e negli stili di vita della popolazione».
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