Sulla versione digitale del Corriere, capita che nella rappresentazione del solo testo non compaia l'autore dell'articolo. Mi piace quando indovino - ormai spesso - chi scrive da come lo fa e da quello che dice. Anche oggi mi è successo.
Da un po' sul giornalone di Milano è ospitato il Dott. Giuseppe Maria Berruti, Presidente di Cassazione, uno dei non più tanti che fa onore all'importante ruolo che ricopre.
Abbiamo evidenziato in passato altri suoi interventi :
http://ultimocamerlengo.blogspot.com/2013/06/quei-giudici-che-nutrono-la-rabbia-non.html
http://ultimocamerlengo.blogspot.com/2014/07/i-magistrati-che-vogliono-veramente.html (grandissimo, da leggere, per chi non lo ha fatto , e da rileggere, per gli altri )
http://ultimocamerlengo.blogspot.com/2014/11/il-giudice-non-piu-sottoposto-alla.html
Molto bello anche quello di oggi, sul problema carceri.
Un carcere più giusto
per onorare i nostri valori
Ioan Barbuta, il detenuto romeno che si è impiccato con i propri pantaloni alcuni giorni fa nel carcere di Opera, non era un uomo buono. Aveva rapinato ed ucciso. Era un criminale che aveva dimostrato ferocia. La sofferenza che infliggeva, per lui, non era un ostacolo. Un uomo duro com’è difficile essere.
Ebbene, quest’uomo ha sentito la sofferenza della sua vita di detenuto fino a uccidersi. Ha sentito la definitività e l’oppressione fisica di un dolore che non lasciava anfratti di speranza. E con i mezzi che aveva, i pantaloni, s’è ammazzato nel modo più doloroso possibile. Anche questo è il carcere.
Alcuni agenti, profittando dei social , hanno comunicato parole di soddisfazione e gioia. Orrende, ma assai meno isolate e inspiegabili di quanto si possa credere. Perché il rumeno, l’arabo, il libico, il povero di altri mondi, è visto come nemico, come minaccia: e allora «deve morire, visto che non è possibile impedirgli l’ingresso in Italia». Perciò la barbarie parolaia di alcuni agenti trova sostenitori. Soprattutto tra i tanti che evitano di esprimersi.
Qualche tempo fa un astronomo inglese di origine palestinese ha chiuso il proprio studio di Londra ed è tornato nella sua terra, con un progetto: insegnare ai bambini a guardare il cielo. Che non è il luogo nel quale passano gli aerei che bombardano le loro case, ma quello delle stelle. Il cielo, insomma, da guardare, non da temere.
A me pare che il nostro tempo non sia, per certi versi, diverso da quella terra: tutti abbiamo paura. Perché le novità che ci assalgono, e la loro rapidità, rendono difficile l’esercizio della razionalità.
I poveri del mondo si muovono verso illusorie terre promesse, e portano con sé tutte le loro miserie. Per alcuni, esse comprendono anche il crimine. Le loro fedi diventano ragioni di identità da difendere, da conservare come verità verso l’ignoranza dell’ altro: per questo facilmente si trasformano in schemi ideologici. Che rispondono con l’aggressione alla diffidenza e alla cattiva accoglienza. Molti, perciò, evitano di approfondire, individuano nell’immigrazione il pericolo, nella particolarità culturale o religiosa l’inevitabilità della deriva violenta. Terroristica addirittura. E la contrapposizione delle irrazionalità avvicina il pericolo della guerra come tecnica di ordine e della morte come strumento di pacificazione.
Le stelle, allora: cioè i nostri principi. Quelli che ci hanno insegnato, all’articolo 13 della Costituzione, che è punita ogni violenza fisica e morale sulle persone sottoposte a restrizioni delle loro libertà. Perché la pena per chi ha commesso reati — la privazione della libertà — è ben precisata nella legge: altra sofferenza non dev’essere scontata. L’Italia da decenni attende carceri nelle quali si sconti solo la privazione della libertà. E da tempo promette attenzione e serietà verso la polizia penitenziaria. Che vive una condizione professionale a rischio di assuefazione al dolore: anche a quello immeritato. Vive una condizione frustrante. Perché nessun carcere ha strumenti capaci di rieducare o migliorare il detenuto. E l’operatore di una rieducazione che troppo spesso non esiste si trova ad affrontare la violenza , la mancanza di speranza, di chi viene solo chiuso in gabbia.
So che il problema è enorme. Ha fatto bene il ministro della Giustizia a chiedere spiegazioni serie sulla manifestazione di opinioni preoccupanti quanto indicative di un circolo vizioso che mantiene crudeltà inutili. Ma se non alziamo gli occhi verso il cielo del nostri principi, con scelte moderne che mettano razionalità nel mondo della detenzione, abitueremo troppi a guardare solo il pavimento che calpestiamo. E a chiedere, magari in modo ipocrita, altre morti rumene .
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