Avevo letto già inprecedenza questo articolo di Giacalone sulla novità del decreto legislativo che prevede la possibilità della non punizione per reati di particolare tenuità. Lo avevo trovato un pochino complesso, meno chiaro rispetto alle lodevoli abitudini dell'autore, e lo avevo accantonato. Ieri però, dopo aver sentito sbandierare per due ore dai politici del PD le magnifiche sorti e progressive della giustizia per le riforme in via di attuazione, con l'esaltazione dei riti alternativi e con la novità appunto della non punizione dei reati "lievi", l'ho recuperato, offrendo le sue considerazioni critiche all'attenzione degli specialisti della materia, in particolare i miei amici delle Camere Penali.
La sensazione è che le novità ci sono pure, e magari le intenzioni sono anche buone. Però, come pure ha ben detto ieri l'onorevole Bazoli, in contro canto rispetto al pappone governativo fornito dai suoi colleghi di partito al convegno UCPI sulla Prescrizione ( post http://ultimocamerlengo.blogspot.com/2015/03/la-prescrizione-meglio-abolirla-la.html ), i nodi cardine di una vera riforma della Giustizia sono altri. E questi interventi, la cui efficacia sarà da testare sul campo, non devono essere specchietti per allodole, pannicelli caldi per evitare i punti cruciali per dare piena ed effettiva attuazione al giusto processo dell'art. 111 della Costituzione.
Buona Lettura
L’ipocrisia della non punibilità
Ci si complica la vita, aumentando i costi e le lungaggini della giustizia, non avendo il coraggio delle soluzioni semplici e lineari. Già sperimentate in paesi di comprovata civiltà giuridica. Arriva al Consiglio dei ministri il decreto legislativo sulle “cause di non punibilità”. Se il fatto è lieve, il danno è piccolo e l’autore non è recidivo, il giudice può decidere di non punire e archiviare. Non funzionerà. Per ottenere il risultato desiderato, più che giusto, ovvero quello di non discutere inutilmente cause irrilevanti, esiste una via meno ipocrita e tortuosa: far cadere l’obbligatorietà dell’azione penale.
La logica che presiede alla soluzione seria è inespugnabile: lo Stato paga un apposito ufficio, quello della procura, con il compito di accusare i cittadini che si ritiene siano colpevoli di qualche reato; poi paga un meccanismo più complesso e regolato, che presiede al processo, condotto da giudici equidistanti dall’accusa e dalla difesa, in modo da stabilire se quel cittadino è colpevole o innocente dei reati che gli vengono imputati; ne deriva che se l’ufficio dell’accusa non ritiene di doverla sostenere, considerando irrilevante la cosa o infondato il sospetto, la cosa finisce lì, senza ulteriori perdite di denaro e tempo (sia dello Stato che del cittadino accusato). Se l’accusa decide di non accusare è evidente che il processo non ha senso. Possono esistere solo due casi, in cui questo dà luogo a problemi: quando il procuratore è un incapace o quando è un corrotto. In tutti e due i casi si cambia il procuratore, non la legge.
Questo nel mondo della razionalità e della concretezza, non in Italia. Da noi si pretende che sia giusto obbligare la procura a sostenere l’accusa in ogni caso in cui ci sia notizia di reato. L’idea è quella che, così procedendo, si evita che i procuratori sfuggano al dovere di accusare i potenti. Peccato che questo tradisca scarsa fiducia nell’onestà e capacità delle procure. E peccato che l’obbligatorietà consenta al procuratore non solo di scegliere quali procedimenti portare avanti e quali lasciare languire, ma anche di prediligere quelli che assicurano adeguata visibilità mediatica. Si pretende, inoltre, che a disporre l’archiviazione, anche quando lo chiede la procura, sia un giudice, in modo da vigilare anche sugli eventuali intrallazzi dell’accusa. Il che potrebbe anche sembrare giusto, in linea di principio (ma non lo è), salvo che l’asino casca sulla cosa più grossolana: l’accusatore e il giudice sono colleghi. E lo sono in modo sconosciuto in tutto il resto del mondo civilizzato.
La non punibilità, di cui al decreto legislativo, non risolve la questione. Nasce male proprio perché ipocrita. Facciamo esempi concreti. Ricordate il decreto legislativo di Natale, morto a Santo Stefano, con il quale si prevedevano soglie al di sotto delle quali non si perseguiva penalmente l’evasione fiscale? Seppellito sotto un tripudio d’indignazione fuor di luogo e conformismo manettaro. Ma qui si ripristina la stessa cosa, solo che si toglie l’automatismo e si lascia la decisione al giudice. Risultato: più soldi e più tempo per arrivare allo stesso risultato. Prendete i casi di violenza in famiglia (preferisco parlare di violenza in famiglia, non di violenza sulle donne, perché il reato è abietto chiunque lo commetta e chiunque lo subisca), ebbene: è grave o no, uno schiaffone? Dipende, perché se è l’innesco di un crescendo, lo è, se è la modalità espressiva reciproca di due maneschi, meno. Dipende. E chi lo stabilisce? La procura, secondo me, che magari dispone anche la sorveglianza. Il giudice, secondo la legge e secondo questo decreto. Ma per arrivarci avremo perso altro tempo e denaro. Prendete le frodi negli appalti pubblici: può esistere una frodina? Dipende: se si tratta di un errore, di una scemata, ci può stare, ma se il trucco sul prezzo è piccolo ciò non toglie che la gara è falsata. Decida chi accusa, anche perché non ha senso accusare chi sarà assolto. Invece decide chi giudica, e siamo daccapo.
Procedendo in maniera vile ci si consegna alle mode. Ci sarà la stagione in cui lo spaccio di droga è reato di grande allarme, poi verrà quella della violenza, poi quella degli appalti, poi si mischieranno fra di loro. E non cambierà niente, perché ciascuno agirà burocraticamente e irresponsabilmente, scaricando su altri l’onere della non punizione, da giustificare non davanti al diritto, ma all’opinione pubblica. Ed è esattamente la giustizia che abbiamo. Non funzionante.
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