venerdì 26 giugno 2015

LETTERA APERTA DI UN ATTORE A TRAVAGLIO SULLA QUESTIONE SOFRI

 

Probabilmente molti lettori si saranno stancati della querelle Sofri, cui abbiamo dedicato due post contenenti uno il pensiero del soggetto coinvolto ( http://ultimocamerlengo.blogspot.com/2015/06/il-cittadino-sofri-per-molti-innocente.html ), l'altro l'opinione di un competente avvocato, Emilia Rossi, dotato di rara abilità espositiva ( http://ultimocamerlengo.blogspot.com/2015/06/emilia-rossi-adriano-sofri-e-lergastolo.html ).
L'argomento poteva dirsi esaurito, ma un amico, Antonio Visconti, lo stesso che mi aveva lodevolmente segnalato l'intervento di Sofri, mi ha girato il post comparso sul sito web Internazionale contenente  una sorta di lettera aperta inviata da un attore, Ascanio Celestini, a Travaglio, che a sua volta non aveva mancato di esprimersi, da par suo..., sull'argomento. 
Nel proporvelo, non posso non approfittare di questo terzo articolo per segnalare anche alcune considerazioni di Massimo Bordin, sul Foglio :

se un processo, oltre il primo grado, si celebra tre volte in appello e altre tre in cassazione e i sette giudizi sono i più vari e contraddittori, quando la pallina, dopo i suoi sette giri si ferma nella casella dove c’è scritto “condanna”, quel risultato deve pomposamente chiamarsi “verità giudiziaria”. Se un condannato sconta la sua pena detentiva interamente, ma in parte agli arresti domiciliari, si potrà impunemente dire che non ha scontato tutta la sua pena. Ci vogliono le sbarre e il cesso alla turca, se no non vale. Se un condannato, espiata la pena, viene chiamato a parlare di carcere, i parenti delle vittime vengono offese.
Prometto che ho finito.






Adriano Sofri durante il programma Che tempo che fa, a Milano, il 25 gennaio 2014.  - Tony Reed, Splash News/Corbis/Contrasto

Ieri Marco Travaglio ha scritto un articolo su Adriano Sofri, ma poi ha parlato anche di altro. Per me che faccio teatro e ogni tanto vedo lui comparire come attore nelle stagioni teatrali è un motivo di riflessione importante.
Da alcuni anni ci chiediamo (io, ma soprattutto critici e studiosi) come mai giornalisti e magistrati, ma alle volte anche preti, portino in scena degli spettacoli teatrali. 
Lo so che il teatro è meno piccolo di una nicchia, ma è un settore nel quale operano dei professionisti che si sono formati per farlo. Non basta avere delle cose da dire per farci un’opera teatrale. Ma probabilmente non è così visto che c’è gente che compra il biglietto per vedere Travaglio.
Oggi mi sono dovuto ricredere. La forza persuasiva di Travaglio ha qualcosa di molto teatrale e tra i capolavori della persuasione mi ricorda il celebre discorso di Marco Antonio di Shakespeare. Cesare è stato ucciso dai congiurati e sulla sua salma Antonio parla proprio col loro permesso. Anche per questo la plebe gli crede. Bruto ha ucciso Cesare per combattere la tirannia e Antonio utilizza proprio i suoi argomenti per rovesciarne il senso.
Travaglio lo fa in un modo più semplice di Shakespeare, ma ci prova.
La questione che cerco di affrontare nasce dal fatto che Sofri viene invitato dal ministro Orlando a parlare di carcere e giustizia e Travaglio scrive che nessuno meglio di lui può farlo, ma lo dice ricordando che non ha scontato tutti e 22 gli anni di carcere al quale è stato condannato. Scrive che “è riuscito a scontarne a malapena 7” e gioca tralasciando il fatto che per un altro mucchio di anni è uscito di giorno per lavorare e poi è tornato di sera tra le sbarre.
La galera solo di notte, per lui, è villeggiatura come per Berlusconi era il confino ai tempi del fascismo?
Tutti quegli anni non se li è fatti in cella perché, ricorda Travaglio, è uscito “per gravissimi problemi di salute da cui si è prontamente e fortunatamente ripreso”, insomma fa pensare a un malessere passeggero, forse persino un pretesto, ma non dice che gli si è squarciato l’esofago ed è stato un mese in coma farmacologico.
E conclude la parte in cui parla di Sofri ricordando che “era stato invitato al tavolo proprio in veste di ex detenuto, quindi di profondo conoscitore della materia carceraria, per quel poco che l’aveva sperimentata”.
Sette anni di reclusione per lui sono pochi.
In un testo del 1949, pubblicato su Il Ponte, Vittorio Foa scrive che “nessuna pena detentiva dovrebbe superare i tre, al massimo cinque anni”. Foa scriveva cose del genere perché conosceva il carcere. Lo conosceva perché c’era stato rinchiuso.
Sarebbe da fare un’analisi approfondita dell’acrobazia retorica che segue e che mette in fila nomi improbabili, tipo: Riina, Buzzi, Lapo Elkann, Provenzano.
L’effetto è quello del frullatore: mischio ingredienti diversi e ne viene fuori uno solo che ha un solo sapore. Che li rende tutti uguali. Un po’ come la barzelletta che ci raccontavamo da bambini. Quella della mela che si sposa con la pesca e il prete dice “vi dichiaro macedonia”.
Ma a parte questo finale di frutta mista che mette tutti sullo stesso piano, tutti impresentabili, tutti malviventi, è più o meno a metà del monologo che usa l’artificio retorico più interessante. Ovvero quando scrive che il contributo di gente come Sofri a un dibattito sulla detenzione “potrebbe avviarci verso la totale decarcerazione, cioè l’abolizione definitiva delle patrie galere”. Come a dire che non soltanto bisognerebbe mandare più gente in galera e chiudercela per molto più tempo. Che non basta avergli fatto scontare una pena, ma devono anche starsene zitti. Per lui è uno scandalo che persone che hanno vissuto un’esperienza di detenzione scrivano libri e parlino in pubblico. E questo perché (lo scrive come se si trattasse di una provocazione, senza sapere che da decenni se ne parla) potrebbero farci capire l’assurdità dell’istituzione carceraria.
Non sto a ricordare a Travaglio che nella costituzione non si parla di carcere e che le pene non devono essere esclusivamente schiacciate sulla galera. Che in molti paesi si è imboccata da tempo la via della decarcerazione.
Semplicemente mi permetto di dargli due consigli.
Il primo è di decidere se sta facendo il giornalista o il teatrante. Sono due linguaggi diversi. Nel primo dovrebbe cercare di raccontare dei fatti, nel secondo può scrivere commedie o tragedie inventando commistioni, parallelismi e macedonie.
E poi gli consiglio un libro che è stato pubblicato un paio di mesi fa: Abolire il carcere. Ci sono scritti di pericolosi assassini terroristi come Luigi Manconi e Gustavo Zagrebelsky. Penso che possa farselo recapitare gratuitamente visto che l’ha pubblicato il suo stesso editore, quello per il quale pubblica libri e dirige un quotidiano.
Con rispetto,
Ascanio

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